Un inquieto ragazzo di provincia… Alain Locatelli

Bonate Sopra. Un posto che tutte le mamme vorrebbero per la propria madre. Campane a messa, gente educata, vicini di casa sempre presenti, pianura corroborante e capannelli di persone vestite per la domenica mattina e pronte per una sferzata di luoghi comuni ad abbracciare la politica, il tempo, le scuole, i figli e il calcio. Il tutto in una ricerca smodata di parcheggio, senz’alcun senso in un’astrazione mondana che riporti le cose come realmente sono: Bonate Sopra è un posto senza domani. Un luogo sulla strada dalla sconfortante ordinarietà, dove si affastellano le menti migliori della nostra generazione rifiutate dalla compagnia del Booster, dove la provincia, profondamente radicata nelle abitudini e nelle scelte, condanna isterie, anticonformismi e ipertensioni, proponendo salvifici salassi o mesmerismi sotto forma di purghe abrogative, consulenti estetici e cortigiane in abito lungo. Qui, Alain Locatelli, può giusto sopravvivere.

Ah… e non è né Kerouac né Damo Suzuki, è semplicemente un giovane che vorrebbe ma che non può.

Il posto potrebbe anche non esserci. Nessuna segnalazione e nessun retaggio. Un fantasma a metà strada tra la panificazione e la pasticceria. Bar Cheri è l’insegna assente. La spersonalizzazione della provincia contemporanea. Quella che se metti nome e cognome, è già un’imposizione di senso, qualcosa di assolutamente arrogante. Così si perde nel magma indefinito, l’ennesimo nome di localizzazione di un contradditorio. L’ennesimo appiattimento semantico di un artigiano che si nasconde. Eppure Alain Locatelli avrebbe qualcosa da dare, a partire dai suoi compatrioti.

Chimera servitami su un piatto d’argento dal talent scout dei panificatori, Davide Longoni !!!!

Superato l’impasse della caffetteria, riesco a notare quei particolari della panetteria, quei pani intrecciati, quelle pareti bianche, quell’asoluto nitore di boulangerie poco valorizzato dall’assenza della materia materia prima e dall’assoluta incuria della clientela che un paio di domande sulle dimensioni del pane riducono in polvere gastronomica. Il laboratorio è quasi perfetto. All’interno due persone, Alain e suo fratello (sedici anni dimostrati, ventitue pattuiti con l’anagrafe, camminata ossessiva e passione sorprendente per i formaggi e per i casari bergamaschi…), un’impastatrice, armadi fermalievita, alcune celle, una sfogliatrice, il forno, una temperatrice e macchine corroboranti una tecnica prima di tutto. Lesinare soldi, guardando gli scontrini e le facce dei clienti, non è di questo laboratorio. Almeno per i macchinari, con tutti i debiti che ne possono conseguire. Sulla materia prima, invece, siamo ai prodromi di un improvviso panificatore che ha provato a spiegarmi il passato senza che io lo mettessi realmente a fuoco. Da una metropolitana di Roma e da un pane industriale non digerito alla conoscenza delle basi e della storia della panificazione. Da un panificio toscano alla Francia (senza un punto fermo e senza un ricordo che andasse ad identificare un maestro), fino a un forno romano, dove per la prima volta ha iniziato a studiare il lievito madre. Il suo percorso pre-Brembate è nebuloso e indefinito. Poche stime, pochi rapporti e ancor meno comunicazione. Un Kaspar Hauser senza andata e senza ritorno, con capacità, sicumera e gusto.

Il croissant, sfogliato nei miei desideri, un filo grasso, ma estremamente godurioso, è già qualcosa di assolutamente paradigmatico. Così come la girella con l’uvetta. I lievitati della mattina, gli unici in cui si concede il lievito misto, sono la base su cui restaurare, ristrutturare o far ripartire tutto. Anche le velleità dolciarie, quelle messe un filo sotto dal tempo di conservazione della colomba, mulino Quaglia, umidità ricercata e gusto un filo sporco, a metà strada tra la pasticceria e l’industriosità di trovare ancora delle soluzioni che abbandonino la bellezza nostalgica e congelante della fotografia stilizzata su twitter e si gettino nel divenire dell’errore, quello impreciso, fatto di tentennamenti, tracce, tonalità e accenti. Abbandonare la strada per prendere la conigliera o la mulattiera. Infangarsi e uscire dall’establishment di libri e gusti. Questo è quello che aspetta Alain, ne son quasi certo.

Il pane di granturco è deciso, senza particolari fragranze, duraturo, in assenza di glutine, poco alveolato, abbastanza gustoso e bello giallo. La percentuale di mais è molto alta, la forma solare è estremamente suadente. Il prezzo è fuori logica, sia per le materie prime, sia per i brembatesi. I francesi con i semi di papavero, anche quelli senza biga, senza starter ma totalmente in pasta madre (il lievito liquido è lattico, quasi dolce, non rilascia acidità residue né al naso né al palato…), sono quotidiani e non prolungati, un’ottima soluzione per merende e fuori pasto. I semi-integrali, con oltre una settimana di vita, rilasciano pochi sentori, ma perfette consistenze. Crosta friabile e mollica solvibile.

Tra le sue mani sono passate anche tumminia e segale, ma la sua artigianalità trasognata le tralascia in potenza nelle sue mani e nei suoi commenti. Il tempo è fuggito e la sua mostrazione è rimasta con alcuni buchi riempiti dalle mie possibilità. Panificazione a ottimi livelli, così come la sua sicurezza che andrebbe rimessa in circolo nel confronto finora assente, i dolci per la colazione goduriosi, l’analisi del cioccolato molto rapsodica e fuori contesto. Alain, nel suo essere invecchiato presto, senza scudi e senza particolari maestranze, è di una semplicità disarmante, con poche strutture, assolutamente contestuale ad una ricerca artigianale che abbisogna di una strada asfaltata, la stessa che gli andrebbe tolta. Maestri e allievi. Se entrasse nel circolo giusto…

 

BAR CHERI

PIAZZA VITTORIO EMANUELE II

BONATE SOPRA

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *