Lasa. Piena Val Venosta. Sentori di Tibet e di miniere. Nel nome e nel naso. Quello che rimane, al di là di una strada che porta verso le meraviglie, è un rinomato ensemble di marmo e albicocche. Quello che la rende appetibile da turismo e avidità. I cittadini si nascondono, il freddo li punge appena, i meleti, senza soluzione di continuità, appaiono e scompaiono al di qua e al di là della ferrovia. Nella tranquillità della lontananza scenica e della giornata lavorativa fatta di ore consuete, una stradina sterrata e innevata s’inoltra in mezzo ai frutteti di proprietà di un bonario, quanto assolutamente privo di coperte, sovrasttrutture e cinismo, contadino venostano: Karl Luggin. Una persona definibile e definita dal suo sguardo, da quegli occhi assoluti che non possono fare a meno d’imbarazzare per i segreti più nascosti, per le parole non dette e per le diffidenze raggelate. Un uomo che, a primo acchito, non puoi fare a meno di aver voglia di abbracciare. Come fosse quell’immagine lontana di saggezza che non raggiungerai mai, quella fuga ideale di un uomo che ha ancora la necessità del saluto e della cortesia…
La sua produzione è variegata e la condivide con la figlia Nadja, buon italiano e ottima comunicatrice d’istinti. La parte discorsiva, quella piena di tecnicismi e variegata di tedio, non è che un ammenicolo, la trasmissione, palesata attraverso le difficoltà del linguaggio e del codice, non può che essere diretta e terrena. Le linee di prodotto sono quattro, così come le stanze. Acetaia, essiccatoio, stanza di degustazione/vendita e “succhificio”. Il tutto, di dimensioni artigianali, come fosse un nuovo modo di mettere a frutto il territorio, non convogliando ai consorzi e rifuggendo dai trattamenti tipici del’”isola felice”, sempre meno felice. Le famose mele della Val Venosta stanno lentamente trasformandosi in famigerate. Chimica, colore e fertilità: evviva la serietà teutonica.
Karl si è chiamato fuori già da molti anni. Solo biologico, piccole produzioni per il fresco, il resto convogliato nelle trasformazioni. Fragole, albicocche, pere, senape, pomodori, cavolo cappuccio rosso e mele. Seme e prodotto finito. Filiera corta e propositi di autarchia. Karl e Nadja mostrano il tutto da bravi divulgatori di semplicità.
L’aceto è ricavato da maturazione e pressatura. Rape rosse, albicocche, pere, lamponi, fragole e mele passano da succo a mosto fino ad aceto. Madre acetica, caldo, botti di legno, decantazione e invecchiamento. L’acidità è bilanciata dalla frutta o dagli aromi del bosco. Alcuni sono straordinari, su tutti quello alle erbe aromatiche, favoloso bouquet di sottobosco, abbinamento perfetto con selvaggine e dolci secchi…
I succhi hanno l’eccezionalità di dedicarsi totalmente alla mela. Champagne e Jonagold insieme. Succo torbido, non filtrato. Polpa, buccia, torsolo e dolcezza. Prodotto quotidiano, minerale e riposante.
Ma il reale motivo, che mi ha spinto a raggiungere il Kandlwaalhof, si è palesato in un attimo di stranito stupore: Weirouge. Karl prende un coltellino e taglia in due la mela. Rossa fuori e rossa dentro. Mi fa assaggiare (ma non ne sono più sicuro…) anche la Redlove (più dolce ma meno interessante) e poi mi conduce all’acidità della Weirouge. Una fusione tra il rosso francese e Weihenstephan, cittadina bavarese, terra d’origine, e una massiccia presenza di antociani, pigmenti idrosolubili antiossidanti e antiradicalici, causa del colore della polpa. Il succo è rosso brillante, acido, impervio, similare al lampone, a tratti astringente, poco sicuro e meravigliosamente diverso. La mela essiccata ne mantiene le caratteristiche, aggiungendo una masticabilità complessa e un retrogusto estremamente lungo.
Per Karl essicazione vuol dire conservazione e passato. Quattro-cinque macchine dove la frutta, completa di buccia, viene lasciata evaporare ed asciugare all’aria (sui 40-45 gradi). Fuori l’acqua (che passa dall’85-88% di mele e albicocche al 94% delle fragole), dentro nutrienti, fruttosio, vitamine e aromi. I sapori rimangono invariati, quasi più essenziali. La dolcezza si concentra, soprattutto nelle fragole, e ridà indietro un immagine più soleggiata e patinata della rusticità. I pomodori San Marzano rimangono, addirittura, senza definizione. Non hanno un relativismo comparabile. Rape, carote, pere, kiwi (di un contadino emiliano…) e albicocche, ognuna con la propria ortodossia, ognuna per il proprio abbinamento. Nadja si aggira soddisfatta, apre e fa assaggiare, mentre Karl la asseconda, osservando le reazioni.
Come quelle con in bocca i diversi gradi della senape (due ettari coltivati nei pressi di Glorenza). Tradizionalmente diversa e meno conosciuta. Il ramoscello è una fatica solo a guardarlo. Il raccolto è una miscellanea di precisione, volontà e oscurità cognitiva. La Francia è lontana, così come il gusto degli altri. Dirozzandomi il palato, mi sono trovato all’interno di erbe aromatiche d’insondabile piacere. Eccezionale.
Karl Luggin è un cesellatore di tradizioni. Una persona che non abbandona e che, reinventando, apre nuove strade e si espone a dileggio e critica. Il concittadino applaude gli occhi e beffeggia la schiena. Le braccia scoperte, la voglia di abbracciarlo manco fosse un saggio o un nonno e gli occhi esposti con ironia molto oltre l’Ortles, tengono lontano scalogna e calamità. Karl è un essere umano molto al di là di qualunque prodotto…
KANDLWAALHOF LUGGIN
UNTERWAALWEG 10
LASA (BZ)