Un artigiano che appare e scompare… Marco Colzani

Carate Brianza. In un fazzoletto di terra, che lambisce la Brianza operosa, quella dei viaggi di lavoro, dei mobilifici, dei Suv guidati da pantaloni bianchi e Hogan dorate, quella delle industrie e quella della crisi, quella che lascia spazio alle colline, agli allevamenti di pecore brianzole, alla coltivazione della vite, alle case dei ricchi milanesi (stanchi del clima putrido e fintamente snob), finanche agli approdi del Lago di Como. Lo stesso fazzoletto di terra che cancella e fa dimenticare, quello che ha rubato i soldi degli investimenti, senza dare indietro nulla, sotto forma di bellezza e di turismo.
La Brianza rimane comunque lì, ha le sue bellezze e ha i suoi produttori. Gli mancano i cantori, quelli che la sanno raccontare e quelli che dovrebbero saperla vendere. Un tour enogastronomico, qualche agriturismo, un relais & Chateaux, un ristorante di livello (che non sia l’anacronistico, ma senza sbavature, Pierino Penati), qualche centro termale che rimanga tale, non diventando una piscina comunale (in Monticelli Terme style…)… Tutto questo latita… però ci sono grandi artigiani e grandi pasticceri. Quelli che hanno mantenuto la tradizione di una milanesità ormai scomparsa dal capoluogo. Gli Zoia, i Magni e i Comi raccontano, rappresentando la storia.
Qui in mezzo, all’ombra del passato e con il nitore di un futuro straordinario, è cresciuta, è venuta alla luce e sta facendo onde, la Pasticceria Colzani, quella premiata e quella del cannoncino alla crema, quella del padre Fausto e quella del figlio Marco, fortunato di poter scegliere, estremista, riconoscente ma, soprattutto, artigiano.
Baffo anni ’70 e allure a metà strada tra il terrorista, il dandy e l’assuefatto uomo di lettere. Formazione classica sull’enologia. Scienze agrarie, il terroir al posto della pelle e le vendemmie al posto dell’autunno. Questa la scelta giovanile…
Tuttavia, in una sorta di movimento dialettico, portandosi dietro i retaggi e i linguaggi del mondo del vino, decide di dedicarsi alla sua famiglia in una forma molto lontana dallo scambio e molto più prossima al dono. Torna. Sperimenta la pasticceria e comincia ad occuparsi dell’autarchia. La terra gli ha insegnato che si può fare tutto, tranne tradire. E questo comporta sacrifici…
Lo chassis da democratico, “arrogante brianzolo” (cit. F.F.), lo abbandona da subito. La sincerità è troppo bella e le parole sono uno schermo troppo labile. Al telefono, la sua timidezza si trasforma in laconicità. Dal vivo, diventa facondia. Ma entrambe sono di troppo. Il prodotto ha troppa espressione. Non ci sono fronzoli e nemmeno belletti, Marco è un artigiano come non t’insegnano più ad essere, con lo spessore della libertà di fare, che sceglie la moralità al posto della bugia e dell’interesse.
Le sue scelte sono radicali. Il vino è il contesto del suo linguaggio e del suo modo di porsi. Poca autoreferenzialità. Qualche aiutante. Suo padre come compagno di viaggio e una clientela di alto lignaggio che ha bisogno della dimostrazione, della mostrazione, delle coccole e degli specchi. Quasi come la critica gastronomica…
Rivoluzione: il suo concetto di fava di cacao è il bisogno di trovare un’origine e di porsi come autore da questa origine.
-Non tutti i cioccolati vengono concati. Abbassamento dell’acidità acetica e maggiore fluidità servono solo per alcuni cru. Dove le sensazioni tanniche sono spiccate. In altri, vuoi per la morbidezza, vuoi per la setosità, il passaggio in conca non si rende necessario.
-Le fave di cacao non vengono tostate da una tostatrice (presente in laboratorio ma utilizzata solo per i chicchi di caffè e per il raggiungimento della sua miscela di arabica…) ma da un forno areato, utilizzato naturalmente per lievitati e dolci da forno. Piccolo segreto o piccolo miraggio? Qualunque sia la risposta, è un possibile iter per quei pasticceri che vedono il cioccolato solo sotto forma di dragée e ganache
Niente lecitina di soia, solo zucchero di canna, burro di cacao delle stesse fave, niente vaniglia e lentezza (grazie alla minor presenza di grassi) nello scioglimento…
Queste poche caratteristiche sono l’immagine di prodotti che l’Italia ha accolto con l’entusiasmo dell’ignoranza. Gli intellettuali che gestiscono La Taste a Seregno hanno pensato bene che un cioccolatiere brianzolo non possedeva il fascino selvaggio di un Corallo, novello Indiana Jones, disperso nelle foreste di Sao Tomè e nemmeno l’accento magnetico di un “toscanaccio” della “Valley”. Ma Marco non poteva che andare avanti. Il bar di famiglia ha vinto tutti i premi che c’erano da vincere, la bellezza, trattenuta dentro, continuava, in maniera indefessa, a scontrarsi con il mondo degli avventori e dei clienti della domenica. E allora le coccole sono diventati vizi…
Marco, con suo padre, ha iniziato la messa a punto di conserve e succhi di frutta. Ha comprato i macchinari giusti (tra cui uno messo sotto le mire del “Conte” Besana, di Galbusera Bianca, che, con tutta l’arroganza del caso, ha preteso di vedere, di conoscere e poi di demandare, ad un’altra regione, la creazione delle sue catatoniche e inutilmente dogmatiche “meraviglie”…) e ha iniziato.

I succhi (dall’ananas all’albicocca, dal lampone, alla pera, fino alla banana) sono, senza ombre triaviali, dubbi cartesiani o mefistofelici intoppi burocratici, qualcosa di sublime, a metà strada tra il Paradiso Perduto di Milton e la rivoluzione mancata degli schiavi dell’Uomo del Monte. Straordinari. Solo frutta e fruttosio frullati insieme. 

Le conserve sono prive di pectina (raggiunta naturalmente dalla maturazione dei frutti) e oltre modo ragionate. La naturalezza diviene un pensiero, poi si rilassa e si riprende il gusto. Rivisitazione di una sacher (perchè altro non può essere): cioccolato Venezuela e albicocca. Castagne di Montella (perchè hanno la dolcezza giusta che molti marroni non hanno…), pistacchio del mediterraneo (salato, quindi per me di difficile decriptazione, ma quanto meno senza inganni…), zucca, mirtilli, lamponi e pere. Tutte definite ma non intriganti. Lente, molto lente al gusto…

E se è vero che l’artigiano è autarchia, la bellezza del posto, la filosofia, il design e la storia rientrano candide, lasciando spazio alla meraviglia del cioccolato.

Perù (partita presa insieme al grande Guido Castagna) al 100%, senza acidità ma con la profondità del gusto che solo la fava può dare. Amaro, poco allineato alle papille, con sentori di secco. Poco scioglievole e poco invitante. Per le giornate terrose e senza sole. Venezuela, Sao Tomè, Trinidad, Repubblica Dominicana, Ecuador. Criolli che non sono criolli, trinitari che diventano forasteri. Piantagioni che non possono essere controllate. Mantenendo il genere, la geotipicità diviene fondante. Terroir, terroir, terroir… e a ripeterlo, è già un gusto. Le tavolette si dimezzano in altezza, perchè Marco è convinto che così si trovi meglio il gusto, e il cacao, percentualmente lavorato con lo zucchero di canna, rilascia tutti gli aromi e gli stupori di una Terra e del suo artigiano. Dalla banana (spuntata così per caso nel massaggiare il Trinidad), all’acidità floreale del Venezuela, dalla frutta secca al tabacco, dal tannico del Sao Tomè alle spezie dell’Ecuador fino al caffè del Dominicano. Ma su tutti predomina il bilanciamento. Consistenze e gusti sono un raggiungimento, non una sorpresa. Volontà e dissidio. Il gusto è lunghissimo, molto al di là della meraviglia…

Marco lo sa e la sua sicurezza ha la protervia della facilità… E se non è beato lui che si può permettere la beatitudine…

LABORATORIO DI MARCO COLZANI – AMARO CIOCCOLATO
PIAZZA RISORGIMENTO 1
CARATE BRIANZA (LC)

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