Il ri-conoscimento di una stupefazione… Noris Cunaccia

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Val di Borzago. Quattro kilometri sulla sinistra di Spiazzo. Poche curve e il cellulare non ha più campo. La solitudine diventa baita e abitanti, un’accoglienza turistica, una bandiera, un campo di mirtilli, abeti a non finire e un fiume che cambia con i colori e con le luci del cielo. I sassi sono questa valle di acqua e felci. I colori non comprendono nulla, sono lì nell’infittirsi del bosco che sale sempre più fino al ghiacciaio del Carè Alto, quello che diventa rosa e luna, domina tutto, impedisce distrazioni e ammanta il sotto-messo-bosco di colori e visioni. Verde, giallo, viola, il rumore del fiume, le felci che sembrano la corona di un re che si sta schiudendo su quella che non è quasi più primavera. La montagna non ha ricordi e non ha compromessi. È tutta lì in quella valle. Senza patine, senza luoghi del desiderio, senza sguardi melliflui onnicomprensivi di tintarella, puttane e gatti delle nevi. È lì, in quanto necessaria, è necessaria in quanto irrealizzabile. E così non ha contraddittori e nemmeno antinomie. È una valle di fiori e di persone al di fuori di qualsiasi speranza. Perché è concreta, ha i piedi ben piantati nella terra e soprattutto ha dei suoni che non potranno mai essere né definizione né nota. La paura, l’informe, l’istinto, è tutto lì. L’uomo, privato di definizioni con cui difendersi, è costretto ad ascoltare: il fiume, il vento, i campanacci, la ruminazione, gli chef antropofagi, ma soprattutto colei che mangia i fiori con educazione e cura: Eleonora Noris Cunaccia.

La valle è sua, anzi le valli laterali della Val Rendena sono “sue”, conosce i sassi, conosce l’acqua, conosce le erbe, conosce i fiori, transita nei dialoghi con le persone, costeggia i cacciatori di camosci, unici compagni di viaggio quando la vegetazione lascia spazio alla roccia nuda, e dirompe all’interno delle conversazioni attraverso gli incontri con la fauna dei boschi. Osservata e osservatrice. La selva decide la posizione dell’uomo nel cosmo e Noris ha deciso di non imporre il proprio punto di vista. Il realismo magico: c’è molta terra e molta fatica, ci sono i battesimi, i disegni, le iniziazioni, le fate e le streghe. C’è una forma di territorio, c’è la leggenda, c’è il folklore, ma soprattutto c’è quel rapporto con la valle che non può che ravvedersi nell’aletheia presocratica, quella di Eraclito, quella dei pensatori nascosti, dei frammenti iniziatici ma soprattutto dell’incontrovertibile primato della fisica e della natura.

La valle di Noris esiste a priori, esiste senza commistioni e senza comunicazioni. Esiste ma senza verità. Il dis-velamento è solo compito dell’uomo. Nessun relativismo ma solo possibilità. Solo l’uomo la può realizzare, portandola fuori. Così, la valle diventa l’oggetto del “fruttamento” e l’alchemilla (Piccola Magia e pianta degli alchemisti che credevano che la rugiada, rimasta intatta per ore sulla foglia, mutasse in oro i metalli …) il simbolo della scoperta: piccola, disposta a rosetta, apotropaica, simbolo di armonia e fecondità, ma soprattutto donna, e in quanto donna, nascosta, profonda e non riconosciuta. Per scoprirla, bisogna farsi strada, superare i colori, andare a fondo, portare fuori e rivelare. Ecco, Noris è il tramite tra il realismo e la magia. Quello (s)fruttamento campigliese, dove i boschi diventano vieppiù piste da sci, lei lo ha privato di una S… che fa tutta la differenza del mondo.

L’impatto è orfico, ci sono cose che non si possono dire, altre che si possono accennare, solo poche sono manifeste. Per essere partecipi bisogna crederci, bisogna mettere da parte quella razionalità urbana da sterilizzatori e idrolisi (ma non è facile…). Il periodo di visita è un mutare di erbe e di fiori. I primi di giugno significano tarassaco e radicchio dell’orso. La Val di Borzago, appena lasciato il giallo dei fiori, è un susseguirsi di felci e soffioni. Noris ha preso un campo, appena pochi giorni prima, e lo ha trasformato in una conoscenza. Il tarassaco si spezza nelle sue parti, la radice, i germogli, i fiori, le foglie, i capolini, e si compone in forme gastronomiche e curative: dal caffè al sott’olio fino ad un assoluto di giallo d’ispirazione alpina-mediterranea. Fiori, limoni di Amalfi canditi alla maison e curcuma, lontano sentore di un viaggio in Africa. Così, la ricerca di un accoppiamento e di un appagamento che non arriva e che procrastina la sua realizzazione diventa giallo su giallo, tre gialli, assolutizzazione del giallo. Noris ha recuperato un’infestante, rendendola manifesta. Ha recuperato quel pezzo di bosco che dei colori non era riuscito a farne dei sapori. Senza addomesticazione, senza ingordigia e soprattutto nel segreto di quello che lei vuole raccontare e di quello che tu devi riuscire a non scrivere. Così, compaiono orti a Santa Massenza in cui recuperare il broccolo di Torbole e l’orto più alto d’Italia dove cercare di coltivare il radicchio dei ghiacciai, quelle notti insonni di giugno che rappresentano zaini pieni e ghiaccio nelle mani.

Suo figlio Gabriele sta provando a surrogarla e a completarla, ma non risponde mai a una domanda che vada al di là della sua reale conoscenza. Risponde Noris, soprattutto quando non sa. I fiori sono infiniti, i libri anche, i ciarlatani pure. Quello che resta è l’esperienza di trovarsi da solo in mezzo alle ortiche, con i piedi di cemento, i rischi anti-economici che vanno dall’orso alle valanghe, dalle vipere fino all’urbanizzazione della montagna.

Poi ci sono le baite, ci sono i momenti di riflessione, c’è la notte che rimane notte e non è nient’altro che delle pareti di legno illuminate da lanterne cinesi e candele improvvisate. In mezzo, la tavola, unica sovrana sopra ogni pensiero e alterazione di dialogo, e i piatti della madre di Noris: capuc’ (fagottini) richiusi in foglia e ripieni di pane raffermo, formaggio ed erbe di montagna, polenta di patate alle erbe e minestrone di legumi e fiori. E qui, la notte buia, la mancanza di ombre, l’alienazione dei visi non visti e non vedenti, passa in terzo piano. Noris racconta e porta in giro Giovanni (che in quell’unico giorno di giugno dovrà o deve o doveva far partire il lievito madre con le gocce di alchemilla…) per i campi, tra i profumi citrici del timo serpillo, il crescione di montagna, i fiori di sambuco ma soprattutto un mare sconfinato di felci e pietre.

La Val di Borzago rimane immune a qualunque moda. Ci sono le sue baite dove alloggiare, rimesse in piedi (Baite di Pra… credit per la foto) in maniera sorprendente e gestite da una triade di sontuosi anfitrioni e uno chef-scrittore-traduttore-psicanalista-citazionista che nella danza macabra delle persone vive è ancora più impressionante del racconto.

Da lì ci si sposta in Val di Genova, dopo Pinzolo, dove le danze macabre esistono realmente e risalgono all’inizio del ‘500, quando la famiglia dei Baschenis decise per il sarcasmo grottesco come forma d’arte. La valle entra subito nel Parco dell’Adamello-Brenta, è piena di turisti, ha alla base la storia dei mestieri, delle segherie, del granito, della tonalite, delle piccole insenature nella roccia che da frigoriferi naturali per stagionare e mantenere i formaggi si sono trasformati in una disfida sul lievito madre tra americani tenuti a battesimo da Noris, dalla sua acqua, dalle sue erbe e dalle sue lune; continua con le sue sette cascate, diventa strada protetta, sale verso l’orto di Noris e verso il ghiacciaio del Carè Alto. Ci sono streghe e diavoli incarnati nel granito, valanghe ricoperte di terra e quella magia che non ha il tempo per evidenziare il compromesso. Così, poche curve più su, e la Val Rendena omaggia le Dolomiti, provando a cancellare gli abusi edilizi campigliesi, per millantatori, discotecari e prostitute baltiche. Quegli spuntoni di roccia fanno da tregua all’ufficio di Noris: la sua mughera.

Tra vipere e trote, gli uomini auto-abbronzanti non si spingono oltre, lasciando il pino mugo al rispetto e alla raccolta sensata. Silenzio, fatica e fragranze fuori dal mondo. La preparazione, che mette da parte insieme a suo fratello Giovanni, l’anima armata della sterilizzazione, della cottura, dell’asciugatura e del confezionamento, quello che fu uno chef stellato e che ora prova togliere l’ossidazione e a ridare conservazione, è straordinaria: mugolio. Estratto dalle gemme, resinoso, viscoso, balsamico e aromatico in maniera concreta, perfetto sui gelati o come gelato.

Solo, tra le scartoffie del suo ufficio, aghi e cortecce, ti accorgi del rispetto anaerobico, quell’unica forma che non fa nemmeno più raccontare. Perché qui è tutto narrazione. La pulitura del radicchio dell’orso e della bardana, la nota di liquirizia dello sgrizoi, la torba del buonenrico o del caffè di tarassaco, l’amarezza della terra, la barba visionaria del suo amico Fero, l’agro-dolcezza del suo ketchup di rosa canina, l’aglio della regina che potrebbe tranquillamente chiamarsi aglio del diavolo, il pungente del kren e della famiglia delle crocifere, il pericolo delle ombrellifere, i suoi libri, la magia, le pozioni, gli unguenti, la gastronomia e la farmacopea, la necessità di rimanere in quel luogo per essere altrove, fisicamente e ideologicamente. Senza obblighi, senza costrizioni, senza un’economia, con quell’ospitalità dura da conquistare che rimane lì sempre come una voglia di ritorno. Il suo sguardo è così terreno da avere bisogno di un contrasto. I suoi luoghi sono questo, donna in un mondo di uomini e animali, con quella dialettica a metà strada tra mostrazione e dimostrazione. Per ogni persona il suo linguaggio: sogno, occhio per occhio, ironia, sarcasmo, gentilezza, contraddittorio, scontro, lascito, ma soprattutto maternità. Ecco, questo è un luogo dove s’impara qualcosa…

 

PRIMITIVIZIA

FRAZIONE BORZAGO 93

SPIAZZO (TN)

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