Artigianato e professionismo (o L’elogio dell’errore)

professionismo

Il paradosso della téchne ha vinto. David Foster Wallace e Philip Dick avevano preconizzato quasi tutto. Se un esito destinale doveva essere, al di là dell’esistenzialismo e del nostro passaggio sulla Terra, è stato. Se gli oggetti, e qui Heidegger ci ha portato fuori e nessuno ci potrà più far rientrare, esistono, esistono come uso prima che come valore. L’utilizzabilità ha creato il bisogno, allontanando il “fine per il fine” e dando al “mezzo per il fine” l’ultima spendibilità di maniera. L’orizzonte è stato oscurato da una massa di formatori di portata eccezionale. E così l’era del benessere si è trasformata nell’era delle continue domande e delle continue risposte, nell’inadeguatezza al sapere totalizzante e nel sofismo come prima forma d’essere. Così, la poesia della natura si è riadattata nella certificazione biologica, nel preparato 500 dinamizzato, nella difesa degli alberi, nell’indignazione per gli orsi uccisi, nel veganismo dilagante, nella lotta alle emissioni di anidride carbonica e a quello che fu l’allargamento del buco dell’ozono, nel benessere animale impossibile, nella vecchiaia come unica forma di morte giusta e nel rispetto verso colui che il rispetto non lo può mai contraccambiare visto che ne è privo: un’elemosina figlia dei tempi e del fatto di dover trovare per forza una fede alternativa al Cristianesimo. L’anima della bestia è hobbesiana non gandhiana. E cazzo, l’animale non è perfettibile, non è migliorato, non ha letto Marcuse e non ha deciso di trasferirsi in città dalla Marsica, lamentandosi poi dell’inquinamento. Non ha mai “imparato” una tecnica per produrre qualcosa.

Invece noi sì, ci siamo evoluti, ci siamo innamorati degli chef-artisti, abbiamo creduto agli chef-scienziati e, appena fuori dai confini, abbiamo continuato a vantarci dei nostri prodotti tipici, delle cucine regionali e della varietà di materie prime che la nostra terra non ha mai smesso di regalarci. Così, abbiamo smesso di trangugiare con voluttà estrema e abbiamo cominciato a farci domande, ad essere prudenti, a leggere le etichette, a giudicare l’esperienza altrui, a distruggere il mestiere acquisito attraverso pamphlet improvvisati, ma soprattutto a parlare e sproloquiare “di astrofisica, di botanica, di neuropsichiatria, di epigrafia greca, di dighe, ponti e di autostrade”, di qualunque cosa non ci riguardi… proprio perché fa un po’ meno paura…

E così l’artigiano ha dovuto trasformare la propria fucina in un laboratorio futuristico, studiando più di un ingegnere, cercando di arrivare laddove la critica non era ancora arrivata. Più per paura che per desiderio. Non mettendo in comune un sapore ma nascondendolo sempre oltre, dietro un verbo ieratico, dietro il concetto di “segreto”, di alchimia, di codardia. E così il professionismo è diventato una chimera, un luogo dove lo sbaglio è un enorme tabù. Meglio l’imperturbabilità cinica che rifugge dalle quattro chiacchiere che cedono il passo più facilmente alla critica e all’assalto.

Altrimenti, per non rimanere impelagati nella possibilità di un giudizio negativo, c’è sempre una scelta esotica “alternativa”. Fuggire. Creare un format, aprire a Roma, replicare a Milano e poi via verso i mercati nascenti. Dubai, l’Oman, Singapore. Le sfide del cioccolato di Gobino e Slitti, in mercati dove sono abituati alla Nestlé, possono portare al massimo ad un birignao schifato. Sfidare gli abitanti dell’Oman, quelli della Russia o i mega-periti singaporiani dal palato laccato è un’operazione di patinata dimenticanza. Mai nessuno che vada ad aprire una cioccolateria in Francia!!!

Il denaro più importante del giudizio, la tecnica più importante della crescita.

E così trovi pizzaioli evoluti, perfettamente consapevoli dell’esistenza di sapori ulteriori, di farine più reali, di frumenti più sinceri, che rimangono tuttavia legati al feticcio della tecnica, a quel cliente che abbisogna sempre dello stesso prodotto, ad una serialità del gesto che non è più nulla se non ripetizione sterile. Il professionista ha superato di gran lunga l’artigiano, lo ha messo in un angolo, gli ha preso il portafoglio e l’ha fatto diventare un’abitudine.

Oppure, trovi panificatori, associati ad associazioni che si sono associate per poter associare, che al profumo hanno preferito la professione, quella da risollevare dopo anni di maltrattamenti e italiano sbocconcellato. E così le michette, le ciabatte, l’idratazione, l’autolisi, la biga, il poolish, il lievito legato, l’estetica e il potere diventano forme svuotate, simulacri di possesso senza profumo, senza una reale percezione della necessità di un alimento che ha bisogno di un professionismo colto, di una cultura al di là di tutto, di uno studio di un principio che non sia quello meramente economico. Perché il ruolo del trasformatore deve tornare ad essere salvifico, Per i mugnai, Per i contadini, Per gli agricoltori e Per gli sperimentatori. Perché il cereale non è il colore rosso su un pacco di farina avveniristico e una panificatrice domestica assuefatta a parole come Frolla, Pizza o Panettone. È una scelta che può foraggiare il professionismo ovvero che può mettere in circolo una nuova cultura e dei vecchi mestieri.

I pasticceri sono l’apice di questo professionismo ardito e misterioso. Il distaccamento dall’artigiano non ha più nemmeno la faccia notabile dei patissier francesi. Almeno lì c’è il rispetto di una comunità, qui si creano boutique per vendere macaron ai viandanti (Imprecazione a scelta). Oppure, nella convinzione (molte volte esatta… e questa è una sofferenza lancinante…) di un’inadeguatezza artigiana, si guarda sempre più all’industria come unica forma di garanzia. Perché gli artigiani non sono in grado, perché non hanno la finezza, le macchine, i costi giusti, i mezzi per spedire, il packaging accattivante, ma soprattutto la stabilità che il professionista non può più abbandonare. Produrre è diventata la fine arte del ripetere (artigianato) senza gradazioni né abbandoni (professionismo), sia da parte del cliente sia da parte del fornitore. L’artigiano che diventa professionista non apre un laboratorio (o al massimo lo chiude) e si mette a fare consulenza, a formare, a guadagnare dei soldi con le proprie applicazioni, abbandonando la tenuità della ripetizione e consigliando il prossimo su come stringersi il nodo alla cravatta il giorno della fattura. È facile, e anche io mi sono lasciato affascinare da alcune affabulazioni senza tempo storico, ma qui siamo tutti nella merda, non esistono corresponsioni di ore legate al prezzo, almeno non tra i veri artigiani, quelli che alzano la saracinesca e vedono i figli già a letto. Il Peritus è l’astratto, l’attrattiva, l’anti-storico, il benestante, l’assenza di compromesso, la vendita, il senza glutine, l’anima della fuga… ma forse forse solo la fuga… senza l’anima… quella è troppo corrotta dalle sveglie alle sei di mattina all’insegna di un’altra giornata di meraviglia e sbagli…

 

Ps… poi ci sono anche gli artigiani scientifici… ma quella è tutta un’altra storia…

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *