Gastronomia al tempo delle periferie… Famiglia Cottone

COTTONE

Bandita. Palermo. Il mare al di là della strada, l’edilizia popolare, che ha cancellato le zagare preferendogli il cemento, appena dietro l’angolo. Qui, il turista passa per un caso, più o meno fortuito, o perché vuole ripercorrere le strade che hanno portato alla santificazione di martiri e di carnefici. Lo sguardo d’insieme è quello di un mare abbandonato, di orti rapsodici, di venditori di quarume, stigghiole e milza, di mulunari, di urlatori infermi, di costruzioni che un senso non l’hanno mai avuto se non nella resistenza dei volti di chi non ha voluto cedere. Qui, tra la Bandita, Romagnolo, Brancaccio e lo Sperone, la città ha edificato anni e anni di dimenticanze e abbandono. Ma a Palermo si sta dove si nasce, un po’ per scelta un po’ per necessità. E così, la famiglia Cottone è sempre rimasta un presidio e una memoria di questi luoghi, con semplicità, con la velleità di restare… portando finezza. Ecco, Emanuele e la sua famiglia, attraverso la macelleria e la gastronomia, semplicemente, sono rimasti lì e hanno fatto alla loro maniera.

Lavoro di quartiere senza quartiere. Francesco, il figlio che è già un proseguimento, ventiquattro anni e una voglia di scelta assolutamente anti-economia e progredita, seleziona vini e formaggi, taglia le carni, impara le cotture e la struttura degli involtini da sua madre… il tutto, senza reticenza. Anche perché, perdere l’entusiasmo, è uno degli stadi precoci del commerciante palermitano, connaturato insieme alla lamentela, che è sempre contemporanea. Qui il passato si guarda senza rimpianto. Emanuele suonava la chitarra, si affiancava nelle lezioni al Conservatorio, avrebbe voluto forse più classicismo, ma la Bandita è stasi non innovazione. Così, ha destrutturato il mestiere del macellaio dall’interno, creando una famiglia senza imposizioni.

Le scelte vanno dal decadentismo palermitano da avversione verso una cultura del bovino alle preparazioni scontate fino a quelle di Margherita, la moglie di Emanuele, che è un gusto molto al di là del palato.

La clientela arriva, prova, non fa molte domande, assaggia. Perché qui il prodotto non viene venduto, viene proposto. Francesco sta cercando di mettere la faccia del produttore su ogni pacchetto o bottiglia. Le carni – al di là dell’Angus che, nonostante abbia un grasso giallo da pascolo, riesce bene ad attecchire nella clientela pretenziosa senza fondo – hanno un’alimentazione e un allevatore. Dal favino alla carruba, i suini neri mancano di genetica ma hanno libertà, i bovini siciliani hanno ancora poco pascolo ma hanno una stalla ragionata. Perché nell’Angus il grasso giallo è una mostrazione di superbia al vicino di casa allappato, mentre nella Cinisara è un’impossibilità coriacea, con un colore strano e una filiera locale che riporta sempre al farabutto. Il grasso è la differenza di questi pascoli poveri, di questi animali bradi, di queste bestie che hanno un senso se hanno una terra.

Testimonianza: provincia di Ragusa, sessanta per cento della produzione siciliana di bovini da carne > bestie viste al pascolo, poche, pochissime, manco fossimo nel cremasco.

La Sicilia lontano dalle sirene e dai fari non è un luogo da stalle ed Emanuele lentamente sta provando ad educare. Il suino è insaturo, oleoso, con sfumature che riportano dolcezza più che sapidità. I bovini hanno i limiti della clientela palermitana, neghittosa e abitudinaria. Lavorare l’anteriore è un lusso che dovrebbe passare per una cottura. E il tempo della scelta non è ancora quello dello spazio. Così arrivano milze, polmoni e trippe, e uno strepitoso diaframma, caldo, grasso, pieno, perché del povero qui si è provato ad innalzare un avamposto di qualità (ribadisco un po’ annoiato: lo street food alla palermitana, quello trovato nei baracchini ma anche nei locali à la page del classico universitario al settimo anno fuori corso e di suo padre disposto ad investire centomila euro pur di poter parlare del figlio sotto gli ombrelloni del Telimar, non è buono…), in assenza, per il momento, delle lunghe cotture, della carne cruda e della povertà della bestia che non è ancora putrefazione o classicismo locale.

Emanuele trasforma qualche salamella, si fa il suo guanciale ma soprattutto ha messo a punto la concia di una salsiccia secca straordinaria: nessuno scarto, nessuna posata, si spezza con le mani, ha una punta di finocchietto e una masticabilità unica. Una rarità nel più tipico dei salumi di strada.

La famiglia Cottone (fuori-scena Annachiara… minuta e discreta…) è quell’eccezione che dall’artigianato ha partorito il pensiero, la ricerca, l’umiltà di guardare ancora i video su Youtube di quelle celebrità solo sentite per nome e nemmeno annusate… perché qui si fanno ancora le cose seriamente, con leggerezza, senza imposizioni ma soprattutto senza la codardia di nascondersi sempre dietro al più classico dei “sai…non posso…i clienti…” …

 

ANTICA MACELLERIA COTTONE

VIA MESSINA MARINE 631

PALERMO

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