Can Tho, My Tho, Ben Tre. Il delta del Mekong in tutta la sua ampiezza di strade uniche senza itaerpendicolari, case, baracche, sedie di plastica, amache e dietro una profondità abissale, dove si aprono corsi d’acqua che si richiudono subito tra palme e bambù. Nel loro casino esistenziale, anche la natura non poteva prendere altri tratti e così immergersi in questa proto-giungla, dove la frutta ti cade in testa e dove le maree tolgono acqua e portano sabbia, è qualcosa di intimamente legato alla fortuna… di trovare qualcuno che ti ci faccia penetrare, spiegandoti le direzioni e la viabilità di un luogo dove compaiono case, ponti, motorini e strade ma dove è impossibile ritrovare una destinazione abbandonata. Qui gli alberi da frutta imperano lavorando sul subliminale e sul riflesso condizionato. Non ce la fai, vorresti mangiare tutto, farti tagliare i jack fruit al momento, lasciarti ammaliare dal cromatismo della pitaya, aspettare che i mango maturino e le noci di cocco diventino arancione. È un luogo inquinato, sudato e meticcio, da cui andarsene diventa una profonda forma d’ingiustizia.
E così inforco la bicicletta che Jack mi porge, nome occidentalizzato per il meno classico degli Nguyen, e attraverso un peregrinare di curve e ponticelli arrivo nell’unica cocoa farm della zona, Muoi Cuong, la prima in tutto il Vietnam.
Uno dei grandi desideri della mia vita è stato realizzato in una giornata semi-piovosa, senza affetti vicino, in una lingua ostile e in condizioni di umidità insostenibili. Vedere il cromatismo e toccarne la superficie ha posto le cabossidi come quell’irrealizzabile che tutti non devono mai smettere di procrastinare. Scusate la banalità didascalica da mental coach, ma il tempo è diventato una piccola perversione oltre.
Un ettaro che Cuong ha ereditato dal padre che, negli anni ’60, importò il cacao probabilmente dal Sud America e impiantò le prime cultivar di trinitario. Macchine ancestrali, simili ai metate aztechi, per produrre il proprio cioccolato e per separare il burro dal cacao magro. Pietre, molte pietre, fermentazioni fatte sotto le foglie del banano, fave vendute ad importatori americani, cioccolato grezzo, senza aromi terziari, un filo acquoso, burro primitivo ma dalle forti connotazioni. Le fave sarebbero anche aromatiche ma la raffinatezza è la futuribilità delle classi oziose e così Cuong, che ha imparato bene l’arte del commercio, continua a proporre il suo cioccolato umido, non cogliendo, nell’interdizione idiomatica, che io sono lì per passeggiare sotto le foglie, in mezzo a presumibili serpenti, cercando di avvistare quelle cabossidi rimaste dopo l’ultimo raccolto. Perché a queste latitudini si raccoglie tutto l’anno. E così l’immagine sbiadita di rimanere sotto foglie grondanti inesperienza, in un mondo al di qua del giudizio, dove il supporto tecnologico e la ricerca qualitativa non sminuiscono di una virgola lo stupore, mi rimette il culo sul sellino e mi riporta verso una nebbia e verso un racconto. Da fare a tutti, sempre e per sempre.
Il fievole contatto in piantagione sarebbe dovuto essere l’accoppiata di Marou, Vincent e Samuel, francesi ma vietnamiti d’adozione, con esperienze in giro per il mondo, che si perdono un po’ nel marketing e in quel cafè straordinariamente antitetico a tutto quello che avviene fuori, ma così non è stato. Un’oasi tra il caos di Saigon. Tostino in bella vista, una rompi-fave, tre piccoli melangeur per fare il cioccolato, un laboratorio di pasticceria, una caffetteria, tavoloni in legno e fave di cacao provenienti da una quindicina di fattorie in cinque zone del Vietnam del Sud, da ovest ad est di Ho Chi Minh, tra il delta del Mekong e il parco naturale Cat-Tien, con delle finezze inaspettate in degustazione, soprattutto dopo gli acquosi assaggi europei. Intelligenti le combinazioni e le aromatizzazioni, l’utilizzo del latte di cocco e le caramellizzazioni. Vincent è più agricolo, Samuel più commerciale. Il loro sguardo ha l’inquinamento della necessità asiatica, dei buyer, di un artigianato arrivato nel 2011dopo anni di business (in altri campi) in giro per il mondo. Samuel conosce tanta gente, è in rapporto con buona parte del gotha del cioccolato europeo e non si schermisce davanti alle critiche. Loro sono i primi bean to bar vietnamiti e probabilmente gli unici con una serietà comunicativa prima che filologica. Il fair trade e l’organic dopo aver visto le coltivazioni a queste latitudini sono argomenti bizantini e probabilmente poco interessanti. Su tutti, il Tein Giang al 70% è letteralmente straordinario, pulito, gusti di pepe molto accentuati e retrogusti mielati perfetti. Ottimo anche il Ba Ria con note di frutta tropicale e di banana. Buon cacao, contadini contenti, prezzi giusti e una filiera che non deve necessariamente passare dal diventare agricoli.
Il cacao vietnamita può andare oltre Puratos e oltre la banalità d’importazione, può essere un progetto che partendo dal gusto può tornare alla coltivazione…