Troppi giorni in città, col caldo, sbiadiscono la retina e così il richiamo della campagna diventa troppo forte. Tam Coc, Nin Binh, i villaggi galleggianti e l’antica e ormai dismessa capitale di Hoa Lu rispondono perfettamente all’esigenza. Stanze di bambù, pagode costruite sopra ponti di pietra, coltivatori di riso alle spalle di formazioni di roccia calcarea e barcaioli con i piedi che ti trasportano sotto le grotte e in paesaggi che nemmeno i curatori di Anime sono mai riusciti a trasporre. La campagna in un’essenza memorabile, irritante per quanto non rispettata e placida nel suo sciabordio di acqua che risale in superficie in mezzo a pescatori improvvisati. E qui ci si viene anche per mangiare la capra e così non posso fare altro che adeguarmi e assaggiarla in tutte le salse.
Dopo un viaggio in un bus a chiamata – guidato da uno dei cattivi dei film di Jean Claude Van Damme, metà denti d’oro e metà buco nero, pelato, sorriso lustro e sguardo indemoniato, che si fermava ogni duecento metri per vedere se qualche anima pia passeggiante per strada venisse punta a vaghezza magari caricando calcestruzzi o bevande di qualunque tipo, e accompagnato da una corte dei miracoli formata da canonica strappona, guardia del corpo, smilzo e tuttofare -, arrivo ad Hanoi, la capitale culturale, il luogo dove Confucio ha plasmato il Tempio della Letteratura, dove le pagode si costruiscono o su un unico pilastro o su undici livelli, dove nel bel mezzo del lago della Spada Restituita spunta la pagoda della Tartaruga e in cui il vecchio quartiere è diventato un luogo di fumisterie trasformate in caffetterie (dove i caffè degli altopiani intorno a Dalat, percolati e filtrati lentamente, tirano fuori improvvisi sapori di mandorla), vendite d’indulgenze, karaoke stonati e un clangore assordante di clacson che ti prende la gola e ti porta direttamente in cucina.
Cucina di strada e cucina delle minoranze etniche per palati meno osservanti. Magari edulcorate al tavolo di un ristorante come Quan Kien o come Chim Sao per mangiare i grilli, le uova di formica, il pollo al pepe selvatico o il ga tan (pollo marinato alle erbe), il pho (zuppa) più tradizionale e buono che si possa sperare, il bun thang (zuppa di vermicelli), le polpettine (bun cha), il riso glutinoso avvolto nelle foglie del banano o gli involtini primavera (la versione col granchio Nem Cua Be mangiata ad Hai Phong, un luogo senza straniero e dagli sguardi più stupiti e leggiadri che si possano desiderare, è qualcosa di magico). Questa è la città dove Ho Chi Minh ha pensato, ha agito e si è nascosto, portando realmente la libertà attraverso il falcetto… ma il futuro lo ha beffato, al di là della contemplazione da mausoleo, non condividendo e facendosi conquistare da un colonialismo 2.O dove i ragazzi ti fermano per strada per parlare inglese e francese, perché la testa abbassata non è diventata troppo prona.
L’obbligo turistico mi porta alla baia di Ha Long che, espropriata dagli espropriatori, sarebbe veramente un qualcosa di lunare, con le scimmie in libertà e queste formazioni che escono dall’acqua andando a formare migliaia di isolette… il limite della bellezza, però, le ha imposto il prezzo d’ingresso. Il classico circo patinato, senza offesa per i circensi.
Questa terra di contrasti e di enormi contraddizioni dove l’uomo non si è ancora mostrato all’altezza della natura e dove donne e bambini offrono una voglia di vivere che nessun traguardo sudato può infondere, è un Vietnam non ancora consapevole, debitore e incoerente. Ma il fascino, probabilmente, è tutto qui, in quegli aromi di frutta fresca che non ti permetteranno mai più di mangiare frutta tropicale fuori luogo, in un durian con odore di piedi marci e un sapore sconvolgente… il Vietnam è questo… ancora dietro la cortina…