Valsavarenche e Valle di Cogne. Lati della stessa medaglia di un parco che mantiene e contiene l’unico quattromila metri tutto in territorio italiano, retaggio da sussidiario e da scuole elementari, immagine di stambecchi e re a cavallo, riserva di caccia personale di Casa Savoia, mulattiere selciate a regalare un po’ di facilità al selvatico, divieti, confino per espiatori di pene, bracconaggio, straordinari crinali e persone sospese tra l’abiezione e l’estasi, tra il dover sopravvivere ad un ambiente, che non sempre è una finestra sul mondo, e la stessa finestra che si apre su un’immaginazione sempre diversa.
Valsavarenche è un susseguirsi di borghi spopolati, di borghi abbandonati e di borghi sopravvissuti, un incedere di valanghe e ungulati, silenzi profondissimi e boati stentorei. Quello che resta sono persone come Emilia e Alma, pochi alpeggi, qualche bestia e la voglia di non farsi sopraffare dalla natura. Bastano quelle sei vacche valdostane, divise tra due minuscole stalle, quelle turiste che vengono a chiedere il latte, quel burro e quel formaggio semi-grasso, così distante dall’ortodossia della Fontina, per riemergere da un passato lastricato e selvatico, dove lo stupore rimane nell’emozione di scoprire ancora cosa si cela dietro le porte. E così, oltre il fieno e le mammelle gonfie di latte, ci sono le storie di caseifici e stanze di stagionatura recuperate, dove ci sono i formaggi a spurgare e dove rame e legno s’intrecciano con i tetti bassi e le volte a botte. In quei luoghi, quando il turista decide, trova situazioni che nel folklore si sono ritrovate, il crepitio delle scale di legno, i forni innevati, le cantine piene di congerie e suppellettili senza un recupero, le persone che, lentamente, anno per anno, abbandonano abitazioni famigliari e circostanze irriguardose. Dove ci sono più animali che uomini il tempo non è mai un favore ma sempre uno scambio, e così o ti abitui a non avere un sussidio o fai prima a chiuderti dietro la porta dell’isolamento selvatico che costa una badilata di euro. Luoghi come Valsavarenche, che anche in regioni come questa si contano sulla punta di mezza mano, non hanno compromessi e non hanno mantenimenti, sono un fluire continuo di reticenze, conoscenze e impossibilità alla fuga. E l’innamoramento è lì dietro l’angolo…
Lillaz d’inverno è tutta ghiacciata, le trote spariscono e le cascate diventano sculture ghiacciate, la Valnontey d’estate è un approdo straordinario alla Montagna, una vista che spazia, gli alpeggi della Fontina non così lontani e il blando passeggiare dei prati di Cogne diventa un blando declivio, obbligo alla solitudine e al pronunciamento continuo, interiore e dialogato, della parola bellezza. Questi sono luoghi con un concetto, con famiglie e stirpi ben consolidate attorno ad un abitato importante, freddo e profondamente ostile, dove il girato filmico è lento, fatto di silenzi, di barbe lunghe, occhi scavati e relazioni centellinate che non portano ad altro che a girare su se stesse, a riconoscersi nei bar e a smettere gli abiti turistici quando la stagione lo impone. Eppure qui c’è un calore verecondo, nei piatti, nelle stalle, nelle cantine ma soprattutto nelle storie, ci sono patois stretti che non sono atti allo straniero, ci sono riguardi e deferenze che con la fortuna hanno poco a che inferire. Te ne vai e sai che rimarrà il tempo e rimarrà nel tempo… ha un nome ma definire ogni tanto non conviene…