Ponti. Monferrato alessandrino, primo paese della provincia e la Langa Astigiana appena fuori, con le sue culture, il suo turismo e i suoi prodotti tipici. Qui le strade sono le stesse, i vitigni anche e i paesi dimenticati dall’architettura pure. Non ci sono leggi d’interesse al di là dell’invidia paesana, qua chi cresce ha da sé la fortuna, chi rimane piccolo è prodigioso, chi rimane uguale a se stesso può andare al circolo ricreativo. Tutti i giorni tutto l’anno. Qui si alleva, si apre, si coltiva, si osserva il placido scorrere del fiume Bormida, si stringono alleanze e il più delle volte si rimane irretiti nella lontananza dalla luce, quella che porta il turismo, trasformando le strade in svolazzanti circuiti alla mercé di raffinate piscine a sfioro e di pulviscoli di noccioli. Qui bisogna fare più fatica, per portare fuori e per portare dentro. E così si guarda al passato con quella discrezione che non può mai permettere l’anacronismo. Anzi, si va verso la leggenda, ci si schiera a favore del territorio e si fa la comunione per non tralasciare la storia della capreria italiana, quel lembo di terra che non ha bisogno del medico condotto alla ricerca di una vita agreste per dare alla capra un’importanza che da nessun altra parte è così. La robiola di Roccaverano è attestata da una vita e la famiglia Adorno ha una genealogia che ne riporta l’origine almeno alla metà del ‘600.
Qui non c’è mai stata la cultura della formaggella caprina e nemmeno della caciotta. La presamica era riservata ad altre tipologie e la coagulazione lattica ha sempre imposto la sua legge, insieme alla non rottura della cagliata e all’acidificazione naturale. Il tempo, molte volte, ha ceduto all’inganno della facilità e così si è arrivati ai primi anni ’90 con in mano un bel prodotto da caseificio, con latti misti, comprati ovunque, pastorizzati e spediti in giro per il mondo così da intorbidire un nome e un’origine.
In anni in cui le logge venivano messe all’indice, una decina di allevatori, più vicini alle tavole rotonde che alle massonerie, si riunirono per creare un disciplinare che fungesse da argine al proliferare batterico di fermenti industriali e serialità spiccia. Lo scrissero e invasero Roma. Il Ministero ne accettò i punti più pregnanti e ne riscrisse altri. La Robiola di Roccaverano non era più solo la formaggetta.
Il latte crudo diventava fondante, il latte di sola capra no. Il disciplinare permetteva e permette l’utilizzo, fino al 50%, di latte vaccino o pecorino, nonostante gli usurpatori della lettera continuino a farlo in purezza con latte di capra di Roccaverano (in drastica diminuzione) o Camosciata delle Alpi. A la louche (al mestolo), cagliata lattica, nessun fermento se non l’innesto, due mungiture (poi ci sono anche gli asceti usciti dalla Dop che lo fanno a munta calda), foraggi e fieni aziendali, pochi cereali, acidificazione e coagulazione che arriva anche alle 36 ore, lento spurgo e maturazione in cella (le grotte sono sempre per gli asceti…): dopo due settimane inizia una rapida proteolisi della crosta e dell’unghia e una mantecazione costante della pasta, i profumi s’infiammano, l’elasticità diventa crema, l’acidità vira verso aromi più solforosi, i sapori col tempo si separano virando verso il muschio e il piccante. La Robiola di Adriano non ha nessun ircino nemmeno nel prolungamento, è pulita, perfetta. La lavorazione in purezza gli riesce meglio che nei due o tre latti (anche se la robiolina incavolata avvolta nella verza ha un bellissimo rapporto tra stagionatura e sapori), e raggiunge il culmine in una toma di oltre sei mesi, erborinata naturalmente e fatta con una sorprendente cagliata acida che ridà un gesso vellutato al palato incredibile.
Gli Adorno, all’allevamento e alla viticoltura – perchè qui soprattutto suo padre aveva puntato su vitigni più deboli rispetto al mercato -, hanno affiancato nel tempo il caseificio e l’agriturismo. Qui da almeno quattro generazioni il formaggio lo fanno le donne. La nonna, la madre e la moglie di Adriano e adesso sua figlia. Rimane circoscritto ad un mestiere femminile con un’alternanza gestionale che non conosce stagioni. Qui il gregge supera le cento unità, a cui viene affiancato anche un piccolo allevamento di fassone da carne (c’è anche qualche bruna per fare i formaggi a latte misto) e di suini per sostentamento e per l’agriturismo: salami, teste in cassetta e pancette per chiudere un ciclo che nel tempo ha trovato la sua realizzazione senza contradditori, in quella mitologia della Robiola che non avrebbe bisogno di molto per mantenersi, se non salubrità e la fatica di far profumare ancora il fieno…
AGRITURISMO ADORNO
REGIONE CRAVAREZZA 35
PONTI (AL)