A Berlino i giorni si susseguono…

Berlino. L’impatto della mia adolescenza fuori dalla bambagia, il primo viaggio, quell’olfatto di strada bagnata e lattiginosa, dove il tempo della contrazione stava già diventando sottrazione e sgomento. Era una Berlino maggiormente definita, schiva e lasciva, come solo le lettere consumate sanno essere, si usavano ancora taccuini e penne Bic, c’era il rimorso di aver sprecato così tanto tempo e l’esaltazione di trovarsi sulle strade della propria vita, così poco capita e ancor meno condivisa. C’era e per certi versi c’è ancora. Il cielo è logoro, gli spazi sono immensi, il fragore è una continuità che si leva per caso, il socialismo è divenuto l’opportunità da non sprecare, i plattenbau sono talmente esposti da non essere nemmeno più sacrileghi, l’iconoclastia è diventata quell’opportunità e Berlino l’ha colta alla perfezione. Il sostegno si è capovolto più volte, quello che era centro è diventato periferia e viceversa, ha mancato di poco la libertà, pur spacciandola attraverso il concetto di vuoto, di ripetizione, di facilità, di arbitrio. Berlino è un’exclave apolide, uno di quei luoghi che tutti hanno voluto, desiderato, odiato, dove si sono formati, hanno soddisfatto la propria adolescenza, dato un nome alle proprie nostalgie e un tenore alle proprie nevrosi. È la città di tutti quelli che nel sogno industriale non hanno mai smesso di credere.

Non concependo i cambiamenti, bisogna lasciarsi sopraffare dal qui ed ora, e la ricerca di cibo post-elettronico, al di là o al di qua di Bernauer Strasse, è un circolo interpretativo come un altro per lasciarsi sfuggire Berlino. Chiaramente si mangia mediamente a caso, ma la convinzione di essere un numero tra l’industrial e i Kraftwerk, non permette all’eccezione di divenire principio autoriale. La massa, il junk food, il kebab, le torte seriali in altezza, lo stinco con le patate, il tempo poco candido della carne, la commistione di tutte le dissimulate culture gastronomiche del mondo, sono tutto quello che, rendendoti uno qualunque, a Berlino ti gratifica nonostante tu ti stia lambiccando per ricercare l’artigiano più efferato della nuova oggettività gastronomica. E ti lasci anche convincere di aver mangiato lo strudel più buono del mondo, nonostante non sia così, oppure prendi una carne di Duroc cotta venti ore a basse temperature gridando al miracolo, ti fai trastullare l’intestino da un mascarpone ai mirtilli ricoperto dal cioccolato bianco, oppure scopri che il dessert bar (menù degustazione tutto dedicato al dolce, probabilmente unico nel suo genere…) per cui ti saresti messo in fila è chiuso per ferie, passi qualche minuto in una fila pomeridiana nella discoteca più dirimente e scostante del mondo, gongoli per uno schnitzel della Germania del sud o per i succhi di frutta di pera in cui i tedeschi sono professorali, cerchi il bean to bar teutonico, sei costretto ad abbozzare davanti alla Kuchen Torte, mangi formaggi in preda ai fermenti, ti convinci che sul burro non ci sia partita, ti trovi a ballare nella sala delle feste un po’ nazista un po’ corte dei miracoli, e pensi che in mezzo al ghiaccio che soffia tra i prefabbricati e le strade deserte non ci siano possibilità di non rimanere irretito. Dai volti diafani, dalle guance scavate, dal nero come forma di soppressione e dal grigio tutt’intorno, quello che ti accompagna oltre Pankow, verso Marzhan o il Tierpark (lo zoo a specchio di una città dove il doppio è la costante psicanalitica attraverso cui tutto ricomporre…) e che ti fa salire sulla linea U5 per lasciarti tutto alle spalle. Berlino è una forma disillusa di libertà per cui vorresti lasciare tutto e deflagrare di quella nostalgia stridula per un tempo che non hai mai vissuto, in cui la regola era la base della rivoluzione…

Per i meri dati gastronomici:

Café Einstein Stammhaus

Lindner

Alpenstuck

Katz Orange

Markthalle Neun

Konditorei Buchwald

Kumpel & Keule

CODA Dessert Bar

Commonground

Belyzium

e mille roastery che tostano specialty coffee…

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