Ai margini e in centro… Giuliano Murada

Albosaggia. Pochi metri da Sondrio. Un paese come tanti. Tagliato in mezzo da strade statali e cavalcavia, tendente ai vigneti sulle terrazze retiche e diradante verso i boschi orobici. Il clima temperato, il sole, il nebbiolo e i tagliatori di tralci sono dall’altra parte. Qui c’è ombra e montagna, con i suoi tronchi, i suoi sempreverdi e le sue balle di fieno.

Stella Orobica è una macchia rosso corallo, tendente al vermiglio, che s’innalza nell’apatico grigio della media abitazione valtellinese (uno dei motivi di mancanza di attrattiva e fascino che fanno dei compagni di merende, giù dallo Stelvio, dei pubblicitari affermati…). Niente Miami e nemmeno Ortisei, ma un tentativo sobrio che fa presagire qualcosa di differente. Estendendo lo sguardo verso le montagne, si possono immaginare gli alpeggi dove Giuliano e suo fratello rilasciano le vacche d’estate. Erba, boschi e notte imperante. Il mio incontro con la generazione comunicativa dei Murada ha avuto un contesto un filo atono.

Preparativi: Paolo Parisi e Stefano Masanti. In zona “anatema mi colga!” per il primo, in sofferta ammirazione per il secondo. Pungolato, non necessariemnte nelle mie parti nobili, dalla bresaola di Angus “Valtellinese”, cerco di capirne di più. La magliettina bianco-muratore di Stefano, la sera dell’ultimo dell’anno, mi sprona a superare i miei limiti. Paolo Parisi è una sciatalgia ma tant’è… Carne, di black angus (ma che ve lo dico a fare…), d’alpeggio, per un pubblico nobile, abituato alle spagnole (…) e assuefatto all’interno del circo identitario gourmet da mille e un sugo. Chi è l’allevatore?

Giuliano Murada.

Breviario sui compagni.

Suo fratello fa il casaro senza voce e con buona capacità. I ricoveri per le bestie sono in stile engadinese. La madre svizzera suggerisce impostazione comunicativa e benessere animale. La stalla è in legno marrone chiaro con stabulazione libera. Le vacche (una cinquantina) si dividono in brune, ancorchè in esaurimento, e pezzate rosse, le prescelte per caratteristiche e quantità di latte prodotto (una sessantina di quintali l’anno). Qualche vitello e un paio di black angus, con la tenerezza dell’animale da divano, lascito dell’eredità Parisi. La carne c’è, poi non c’è, poi rimane solo un arrosto. Così come la bresaola, ancora in stagionatura…

… che mostra la presenza attraverso le sue camere. Labirintiche, buie, prive di fascino ma ricche di contenuto. Le patate come corredo e legante tra i corridoi. Le stanze dei formaggi penetrano all’interno della terra. Niente ammoniaca ma, su certe forme, un’acarofilia accentuata. Giuliano conferma la volontà, io rimango dubbioso. Amarezza e proteolisi stuzzicano gli occhi, un filo meno i palati. Il controllo è tutto. Sopra il bitto, il grasso e lo scimudin, più sotto forme piccole di casera, che sembran lì da anni, ma mentono proditoriamente sull’età…

Quando pensi sia finita, Giuliano apre altre stanze. Salami e bresaole (più qualche slinzega). Solo sfiorati, ma l’attrazione è andata più verso il bovino che verso il suino…

L’agriturismo è un retaggio anacronistico di tranquillità, legata all’ora che si avvicina alla fine. Qualche anziano, un banco di formaggi, un mungitore automatico di latte e un cesto di noci. Legno tutt’intorno, sopra, sotto e in mezzo ai tavoli. Non puoi fare altro che dedicarti al cibo. L’inverno invita a rimanere dentro. D’estate, pascoli, abeti e immaginazione verso il Lago Casera, l’alpeggio e la transumanza. Ma ora, tutto questo è un accenno…

Degustazioni.

Partiamo dal Bitto. Niente Valli del Bitto e niente presidio Slow Food. Consorzio sì, quello sì. Caci svenduti a pochi euro, sopravvalutazione generale di un prodotto e della valle e tante contraddizioni verso un formaggio che non ha bisogno di un’espansione orizzontale ma verticale, visti gli alpeggi vuoti sopra Gerola. La Dop di Giuliano ha un anno, è dell’alpeggio 2011, un aroma intenso, ma cremosità e morbidezza che altri formaggi, così stagionati, si sognano, giallo paglierino ma gusto appena accennato, rispetto a quello straordinario dato dall’invecchiamento. Buono, senza peana. Il casera giovane è troppo ciccoso, non rispecchia le mie voluttà, ma non necessariamente per una complessità organolettica appena accennata. Lo “stravecchio” è buono, accenni di banana, a metà tra i sapori di fieno e i problemi di fermentazione. Lo scimudin (o Bosagella come lo chiamano qui) è bianco, poco gessoso e lattico. Ottimo al naso e ottimo al palato. La Stella Orobica (il loro vanto, ancorchè sia una produzione invernale) ha una lavorazione che risente della vicina Svizzera. Si sente subito sia al gusto che nella masticazione. Ricorda un Gruyere o un Comtè o un Abondance. Odore fruttato-fermentato con tracce di tostatura. Dolce e compatto. I denti rimangono impressi nella pasta e rimandano a una gustosa rarità per queste lande. La ricotta è selvatica, forse un filo troppo, il grasso d’alpe (qualcosa di simile al Bitto, non marchiato), invece, è veramente eccellente e mi stupisco che non si punti principalmente su questo. Dando un nome e lasciando perdere l’inarrivabilità dell’inarrivabile. Occhiature perniciate e aroma di fiori. Meraviglia.

Giuliano è un allevatore contemporaneo, legato alle dinamiche della dialettica e della disfida. Niente agone, ma i mezzi di comunicazione li sa sfruttare e probabilmente indirizzare. Un ragazzo, poco più che trent’enne, che fa parlare di sé in Valtellina, ma chi se lo ricorda? La consuetudine è rappresentata dall’oro, trovato per caso in cantina…

 

AGRITURISMO STELLA OROBICA

VIA TORCHIONE 32

ALBOSAGGIA (SO)

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