Alpe Valanghe. Valle Maira. 2100 metri nel territorio di Marmora. Dolomiti piemontesi al confine con la Val Grana e la Valle Stura. Molta roccia, ciclismo eroico e vie d’arrampicata. Qui non ci si arriva per caso. Soprattutto se la partenza è l’altra parte del mondo. È una missione conoscitiva che mira all’intimità, a quel contatto tra uomo, roccia, cielo e cibo che solo determinati alpeggi trasformano in dono. Quindici kilometri dalle ultime borgate per inerpicarsi tra asfalti dondolanti, sterrati, vacche al pascolo in mezzo ai ruscelli, grandinate fisiologiche, profumi di sottobosco, abeti inquieti e tutta una serie di rumori silenziosi che potrebbero addormentarti in un attimo. Qui bisogna abbandonare la meta e la rincorsa verso l’ottenimento. Nonostante la stanchezza e il dolore alle braccia per le centinaia di curve, la sveglia impastata e la solitudine da ruota bucata sempre dietro l’angolo, è necessario lasciar da parte la logica discutibile del dover trovare a tutto una definizione. Tornare un po’ meno uomo e avvicinarsi ad un senso comune che lo sguardo di due occhi acquamarina mettono a soqquadro per un’intera mattinata. Roberta Colombero ha 28 anni e alpeggia da quando è nata.
È anche la presidente del consorzio che difende il Nostrale d’alpe, un formaggio rimasto per anni senza nome, simbolo di vallate silenziose, ricche di alpeggi e di rughe efferate. Lei ha un’altra storia, lei ha deciso di portare avanti la tradizione dei genitori e quella dei nonni, senza dimenticare che il formaggio, per guardare attraverso la modernità, ha bisogno di tecniche e conoscenza. Così, dopo un percorso-fusione tra le conoscenze di suo padre Giulio e quelle di Guido Tallone, tecnico caseario di Agenform che ha messo a posto centinaia di formaggi in giro per il Piemonte, i prodotti hanno cominciato a spaziare dalle tipicità di queste rocce, si son fatte prove, le cagliate son diventate più morbide o più filate.
Il resto però è del tutto simile a quell’asprezza senza empatia che i malgari hanno sempre confidato a loro stessi e al rapporto verso la curiosità. I volti sono più definiti che in pianura, si vedono i riflessi e i lineamenti come se non ci fossero nemmeno strutture. Roberta racconta e si mette anche da parte. Si fa dare il cambio da sua madre e salvaguarda le possibilità dell’alpeggio per le generazioni future. Una ragazzina, Roberta Valletti, chiamata Robertina per capirsi, 17 anni, o forse 18, in alpeggio da tre anni – l’anno scorso a Castelmagno a raccontarsi una storia di alpeggiatori vignaioli con poca verità -, pascola le capre, alternandosi nella produzione del formaggio, e dando all’alpe un senso rarefatto di surreale bizzarro che mette al centro le donne e lascia uomini e bestie allo spazio di una comprensione e di una deferenza.
Le Piemontesi e quelle poche Frisone, che Roberta ha incrociato e sta cercando di testare su quei pascoli, sono oltre la stalla, al di là del vallone, fuori dal controllo e soggiogate solo dal bisogno di essere munte. Così tornano, mattina e sera. Le vacche Piemontesi da latte sono un retaggio che in pochissimi possono ancora permettersi. Limitati litri di latte al giorno, altissima qualità, fisionomia rivoluzionata nel corso degli anni, genetiche e sapori differenti. Nessun mangime, poco fieno alle Frisone ed erba per tutto il resto. Doppia mungitura e formaggio mattutino. Il Nostrale è un raro formaggio d’alpeggio a pasta cruda, semi dura, a latte parzialmente scremato (il loro) o latte intero, nessun fermento, con affinamento minimo di 35 giorni e risultati straordinari fino all’anno, dopo dipende un po’ dalle casualità, dalla conservazione oppure dall’abbandono forzato di alcune forme che passano l’inverno oltre i duemila metri e si ritrovano l’estate successiva granate alla perfezione. Per il fresco Roberta ha messo a punto una pasta molle strepitosamente lattica, alcune robiole (Nostrali più piccoli) e dei caprini lattici che proteolizzano in maniera rapidissima, cambiando il gusto, perdendo acidità e guadagnando in profondità gustativa. Le stagionature in alpeggio devono rispettare le stagionature in alpeggio. E siccome non è Natale devo accontentarmi di nostrali potenzialità. Il resto è un burro di siero misto panna e uno stratosferico yogurt denso, con fermenti legittimi, con sapori di fiori che non si possono nemmeno definire. Perché fermentare è a la page, fare il kefir ancor di più… ecco, farlo con il Granarolo o con un latte polifloreale farebbe ancora la differenza…
… la guerra è ancora lunga…
Questi sono luoghi che non si esauriranno mai. L’ho capito lentamente, guardando la pervicacia di ragazze di venti o trent’anni disposte per tre mesi a dormire in una roulotte o in troppi in una stanza, che osservano le proprie bestie con ardimento e il proprio formaggio con risolutezza. Nonostante la condivisione o grazie alla condivisione, questa è un’Italia senza compenso sopra le nuvole, che non morirà mai…
AZIENDA AGRICOLA COLOMBERO GIULIO E ROBERTA
ALPE VALANGHE
MARMORA (CN)
D’inverno a Savigliano