Amsterdam – Seconda Parte

gouda

Per i formaggi siamo al limite della denuncia. Se si è presi dall’entusiasmo di trovare un Henry Willig e una bottega del Gouda ad ogni angolo di strada, si torna a casa con un pacco clamoroso di bucce colorate e non edibili e formaggi che sanno tutti di crosta di pane dolciastra. Formaggi che fondono e che assomigliano irrimediabilmente all’unica idea che il formaggio olandese brandisce in giro per il mondo. Però i canali ci vengono in soccorso, con luoghi meno delibanti, dove i lustrini sono una clientela fedele e un turista senza accetta. Kaaskamer è una bottega antipatica, dove il sostenuto è d’obbligo e dove ancora si vendono i Testun al Barolo di Beppino Occelli dei quali non riuscirò mai a farmene una ragione… però, al di là della patina e dei pacchi preconfezionati, ci sono piccole chicche iper stagionate e un formaggio organico di Jersey di 18 mesi, dall’aspetto poco olandese, letteralmente straordinario. Remeker è una fattoria a una cinquantina di kilometri da Amsterdam, dove hanno deciso che l’uniformità del formaggio locale era un marchio di riconoscenza e di tradimento, qualcosa che andava rimesso in discussione per tirar fuori un luogo alpino, un prodotto giallo ambra, grasso, poco pastoso, da pascoli cuneesi e pianure irrigue. L’Olde Remeker è una pasta cotta che non ricorda nulla di simile, nemmeno fuori dai confini.

Agli olandesi piace la dimostrazione dello stagionato, il fresco non è nelle loro corde, lo svendono come prodotto d’accatto, non ci san tirare fuori granché. Ma è lì che si dovrebbe fare la differenza. E invece fanno a gara a chi stagiona di più. E così il Gouda stravecchio di quattro anni, difeso da un presidio Slow Food, pascoli torbati tra Amsterdam, Rotterdam e Utrecht, al di là delle banalità plasticate in vendita nei ridicoli cheese shop del centro, è sì particolarmente fiorito ma rimane sempre alla ricerca di quel patinato dolciastro (che il lavaggio della cagliata aiuta a sostenere) e di quel cremoso che dopo poco ingrassano e annebbiano il palato.

Amsterdam è dotata di un birrificio artigianale et biologicum che, dopo aver impattato per giorni e giorni contro l’immagine reazionaria dell’Heineken Experience, vi sembrerà salvifico, si chiama IJ (dal nome del lago-lungomare-fiume) e tira fuori birre un po’ pedisseque (interessante la Struis), e di qualche pub con delle idee chiare, su tutti t’ Arendsnest che ha deciso di proporre solo birre olandesi, alla spina e in bottiglia, e qualche distillato come il Jenever, progenitore locale del gin: Jopen, De Prael, De Afleiding, Van Moll, Koningshoeven, l’incredibile Honey Rye di De Molen, una birra veramente rara, e la saison ai lamponi di Oersoep, stordente nel suo essere imbevibile.

Ultimo e buon alfiere del godimento lussurioso non poteva che essere il cioccolato. I from bean to bar ad Amsterdam sono due: gli alfieri dell’hipsterismo europeo, i Chocolate Makers, che han deciso di rifarsi agli oppressi Mast Brothers quantomeno per la comunicazione, fabbrica tra i cantieri portuali, cioccolati a basso prezzo, criolli, forasteri e trinitari senza origini precise, ben raffinati, senza alcun tipo di aromatica che non sia il cacao; e i paraculanti di Original Beans, che si fanno lavorare il cioccolato in Svizzera da Felchlin, puntano su una comunicazione pulita che definisca il proprio cioccolato nella raffinatezza del giudizio e delle fave pregiate utilizzate: un buon Porcelana, ricetta nitida, zucchero di canna, fave e burro, buon gusto, pochi retrogusti e molto racconto su viaggi, sostenibilità e origini.

Amsterdam è una città che appare fuori da una superficie terrorizzante. Il supermercato è l’indice più stringente degli albori e del primitivismo a cui sono incatenati. Checché ne dicano gli indici internazionali, possiamo continuare tranquillamente a sciacquare i nostri panni in Arno o nel Po e guardare al nord con la pace risibile dell’eccezione e delle radici nella neve…

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