Pietranera frazione di Rovegno. Avamposto della Val Trebbia Ligure che non porta da nessuna parte. Qui c’è una cesura in quello spazio che non concede né il lusso né il precetto, non si inseguono caparbietà o socialità, si è rimasti una decina, si scurisce, ci si illumina, si prendono le stagioni come una variabilità necessaria e si rimane al di fuori di tre kilometri di curve in mezzo alle conifere, in un isolamento imposto, daziario e climatico, in quell’Italia che spera che non succedano mai tragedie. Qualche balla di fieno e qualche prato tagliato riflettono l’architettura razionalista di colonie destinate ai bambini, trasformate in prigionie e rappresaglie, e definitivamente abbandonate ad un’incuria deterrente, che spiazza, rendendo il tutto più profondo. In quel senza centro che impegna attraverso stradine strette e impervie che chiudono i passaggi, le persiane verdi, che della Liguria han creato un effigie, i terrazzamenti, i campanili che non si sono portati dietro le ciminiere, e una quotidianità diafana – dove il silenzio, fuori dagli orari di punta e di convito, è assoluto -, Pietranera desta l’estasi estensiva di un tempo senza fine e senza fini se non la vista. I cieli da epilogo del mondo si sprecano, perché la frontiera non è più nemmeno un passaggio ma un ottenimento di giudizio, qui si viene, ci si guarda in giro, si gode di questa roccaforte rarefatta, e ci si lascia alle spalle le nuvole, le notti e gli inverni.
La Trattoria dei Cacciatori svolge ancora il ruolo salvifico di intreccio, di relazione, di discussione e di riposo, presagio di una contemporaneità vietata e aspramente biasimata, dove il giudizio si affibbia lontano dai boschi, dall’abbandono e dallo spazio della sfida tra l’uomo e il suo selvatico. Questo era il luogo di ristoro per i praticanti la caccia, c’era il bancone, c’erano i tavoli, c’era la bottega e c’erano i letti. La notte scendeva presto e le strade diventavano miraggi. Ora Giacomo, sua madre e sua figlia Carolina hanno deciso che il tempo della vendita non li avrebbe negati. E così al di là della locanda notturna, del kilo di pane e dei tabacchi, licenza che non gli è stata rinnovata perché gli introiti non erano quelli desiderati dallo Stato, portano avanti una trattoria e una cucina rimaste intatte, con la stufa, l’aia, il bancone del bar in formica, rimasto al tempo degli amari, e le facciate in verde pisello pallido. Giacomo coltiva le sue patate, dalla Quarantina alla viola, le conserva negli antri della frazione, e scava nelle ricette della tradizione per non spostarcisi più. Mandilli de Saea al pesto (lasagnette) tirati a mano, ravioli, agnello fritto, coniglio, giardiniera, torta pasqualina, un percorso determinato tra l’entroterra e il mare dove il tempo delle apparenze non si è mai affacciato. Tutto fatto con dedizione.
Il resto è sterile discetto da principi principianti.
Lo sguardo della montagna rimane fiero e diffidente, porta i sorrisi, le concessioni femminili, associandole a rughe rigogliose e mai riposte, e il ritroso selvatico maschile, quello che guarda vicino perché la conoscenza è un’astrazione fatta di piccoli passi. Rappresentando la decadenza della costruzione, luoghi come questo si appoggiano sul costume del rispetto al di là di tutto e prima della contraddizione…
ANTICA TRATTORIA DEI CACCIATORI
FRAZIONE PIETRANERA
ROVEGNO (GE)