Val Sermenza, valle laterale della Val Sesia. Frazioni di Boccioleto. Case sparse. Chiese affrescate, acque sgorganti e tempi lunghi. La valle si scurisce e la valle si apre. Si costruiscono le case, guardando l’orientamento del sole. Quando la luce termina, ci si accontenta di una notte profonda sei mesi chiamata fondo valle, dove ghiaccio e neve, anche quando ghiaccio e neve non sono sinonimi d’inverno, rimangono intatti e profondamente connaturati alla voglia di espressione di persone serrate dietro le persiane e dimentiche di altro che non sia la quotidianità del lavoro. Loggiati e coperture in pietra verificano l’intransigenza a un rifacimento culturale. Qui i luoghi chiudono e le aperture sono forme d’inflessibilità e di soddisfazione per pochi intimi. Eppure i giovani resistono e ci sono. Le frazioni e i paesi si succedono per poche centinaia di abitanti ed estensioni senza fine di rocce, acqua e boschi. Il mantenimento non è più un legame ad una piazza ma a diversi comuni che si assomigliano tutti un po’, in quell’incedere di nomi che sono ossessione e presagio.
In mezzo a quelle case sparse dove le macchine non sono accette e dove allevamento e agricoltura sono sempre rimasti – e ancora oggi è così – delle forme di autarchia poco più che condivisa, due ragazze, due gemelle, poco più che ventenni hanno divelto per sempre il mio senso del pudore e della domanda…
Greta e Natascia nascono lo stesso giorno in mezzo agli anni ’90, in un borgo antico e decadente. Terminano le medie e s’iscrivono ad agraria. Senza entusiasmo. Greta, un giorno, per caso, dopo una gita a suonare il piffero, incontra una contadina e le chiede di poterla seguire per occuparsi delle vacche, delle capre, del formaggio, dell’alpe. E così, dai 13 anni fino quasi alla maggior età, vive e lavora (in quella concezione di scambio non proprio remunerato…) dall’altra parte della valle. Torna a casa per brevi momenti, con Natascia si sentono al telefono. Lei sta seguendo la strada della zia, poche capre, un piccolo orto, le mansioni di un borgo disperso e ritrovato. Senza poesia e senza una dimensione spirituale di scelta professa. Lo scambio di Greta termina con le capre e una vacca per poche centinaia di euro. Lo zio biellese (e tra valsesiani e biellesi non scorre buon sangue…), alpeggiatore della prima ora, decide di condividere con loro una possibilità sull’Alpe Testanera sopra Alagna. E così dopo una serie di tramuti e maggenghi si arriva su quasi a 2300 metri, dove ci sono pascoli e rocce e per la legna bisogna scendere e sprofondare nella fatica. Dove si è sempre fatto Macagn e dove si continua a fare Macagn, tra alti e bassi, alpeggiatori invecchiati e nuove leve magnetiche che nella loro contraddizione spostano la magia per ridare indietro la possibilità ad un futuro, dove la donna è più contemporanea del contemporaneo, perché se il femminismo avesse ancora un senso, Greta e Natascia lo impersonificherebbero alla perfezione senza nemmeno metterlo in dubbio.
Ingombranti, ciarliere, contradditorie, giovani, eclettiche, antiche, disinteressate, un po’ vanesie, refrattarie alle regole, consumiste, solitarie, fuori dal tempo perché assolutamente dentro al luogo. Nel loro modo di porsi al mondo come ad un antagonista, non se ne andrebbero mai da quelle quattro case, da quelle stalle sparse e da quei cumuli di succubi pietre che non sono ancora dialettica. Strappano i rovi a mani nude, non ci sono filtri, la fatica non si racconta ma si conta, mette a disagio l’agio di una rappresentazione al di fuori della valle, è l’esatto punto d’incomprensione in cui ridicolo e profondo sono costretti a confondersi. E lì, tra un Macagn di qualche mese, straordinariamente pulito, per essere il risultato di un dover essere, cantine di stagionatura che si nascondono dietro porte di legno in mezzo ai borghi, racconti in cui la negazione diventa sempre un pregio e dove la logica dei miei compagni di viaggio (di solito alieni e tangenziali) e il loro silenzio – come fosse un’attenzione a cercar di riportare tutto verso il conosciuto e verso una casa che possa finalmente definirsi -, sono solamente il preludio al diverso (a quello per cui le parole non bastano), il linguaggio diventa troppo vigliacco per esprimere un giudizio mentre la normalità del salariato urbano appare come un rimasuglio dietro una porta, tra un racconto di fabbrica e un divano scavato nella tv satellitare.
La ricerca di una futura stalla, di fondi agricoli, di un caseificio a norma, di un fondo valle di passaggio sono solo gli effetti di chi le ha notate e non può farsele sfuggire. Nel bene (delle aziende agricole con filiera, trasformazione e stagionatura fatte in casa) e nel male (della più classica delle omologazioni: conferimento a caseifici di valle), tutto ciò è il passaggio obbligato del “caciomercato”, di quella identità, di solito fatta di merletti, rughe e pastorizie piegate su loro stesse, che nella possibilità di un futuro del genere fa drizzare le orecchie a molti. Nonostante la reticenza e quella popolarità brusca che fa dire ai più “ah sì… scendono al mercato del martedì”, due ragazze così, di passaggio, alterano le percezioni e rimettono in discussione… i pensieri, i racconti e i gusti… ci sono altri fini?
AZIENDA AGRICOLA
FRAZIONI SPARSE
BOCCIOLETO (VC)