Parigi val bene una… boulangerie!

Le città hanno dei confini e dei limiti ben precisi, nonostante i manifesti contemporanei stiano cercando di fare apicoltura nelle fogne e di creare orti sui vagoni della metropolitana, e sono quelli degli artigiani, quelli che possono realmente permettersi Parigi e quelli che di Parigi sanno cosa farsene. Il resto è formato da una schiera di commercianti e affinatori che nella città vedono il punto di arrivo di una vendita facile, con qualche chicca di retroguardia e una stabilità di acquisto che vada di pari passo con i licenziosi desideri di clienti che non sanno più cosa ottenere. E così le fromagerie sono ricche e intelligenti nonostante, allo scandaglio, mostrino il fianco alle critiche come tutte le botteghe del mondo. Nessuna esclusa. Anche qui, al di là di una preminenza di latte crudo e di cartellini con provenienze e produzione, il facile da gestire deve essere il primo lasciapassare verso l’accumulo, il guazzabuglio e l’estetizzante. Poi scappa l’occhio sulle produzioni italiane e, al di là del sorriso, scappa anche la domanda: “Ma chi vende i formaggi francesi in Italia pensa di vendere qualcosa di meglio di colui che vende formaggi italiani in Francia?”. Risposta senza replica e contentezza per quello trovato. Brie (Meaux, Melun e Coulommiers), toma estiva del Béarn di pecora, il solito Comté invecchiato, Camembert, immangiabili Mimolette, caprini di tutti i tipi (perché ho la conferma che ai francesi della stagionalità della capre non frega nulla… e quindi via di destagionalizzazioni e parti autunnali) e tome d’alpeggio raffinate ma tolte da un senso precipuo. Su tutte spicca Quattr’homme, luogo cardine e simbolo per capire dove i nostri venditori mai arriveranno.

Ma gli artigiani della nuova generazione, quelli che non hanno addosso troppo lusso e quelli che si possono permettere arrondissement più defilati, hanno visto in Parigi la concretezza per riportare l’idea del pane e del paysan boulanger, di memoria bretone o pirenea, ad una vendita meno proteolizzata, meno legata al passato, ai profumi e agli spazi, e più intimamente percossa dai gorgoglii metropolitani. Shinya Inagaki, Tanguy Lahaye, Veronique Mauclerc, Émile e Jules Winocour, Thierry Delabre (il Panadero Clandestino), François Brault e Thierry Breton (con i suoi bistrot e la sua idea di convivialità/gettoni in un locale à hors-d’oeuvre-un bar per antipasti) sono un buon motivo per smettere di fare paragoni. Pani grossi di campagna, lievito madre sempre una punta acetico, farine macinate bene ma nei sapori tutte un po’ pedisseque, croste sul caramellizzato andante, modelli contadini e profumi che inebriano i quartieri. Baguette e croissant sono lontani ma non troppo, le sfide alla tradizione rimangono sempre un filo tangenziali e così i classicismi di Dominique Sabron, di Anthony Bosson, di Rodolphe Landemaine o di Benoit Maeder mantengono intatti la capacità estetica di vetrine e banchi impareggiabili, senza discussione su gusti, burri o lieviti, con l’ammirazione che si confà a chi rimane paradigma e principio di responsabilità…

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