La Bassa Padovana è un territorio dalla storia poco agiata. Una trentina di comuni, centomila abitanti e una superficie di cinquecento kilometri quadrati. Il territorio, come buona parte della pianura Padana, è stato bonificato totalmente nei primi decenni del Novecento. L’economia ha sempre guardato all’agricoltura come una fonte di salvezza prima che di reddito. Latifondisti pochi, contadini molti. Il paesaggio composito passa attraverso le sue aree naturalistiche verdeggianti, i campi di granoturco, gli alberi di giuggiole, le eleganti ville, tra cui Villa Pisani Scalabrin a Vescovana e Villa Miari de Cumani a Sant’Elena, ma soprattutto quell’unica meraviglia architettonica, Este, con i suoi angoli pittoreschi e i suoi squarci più caratteristici. A Vighizzolo, pochi kilometri a sud-ovest, in mezzo a rogge e campagne, Molino Quaglia ha la sua sede, avanguardista e contemporanea, dove riunisce grandi panificatori e grandi pizzaioli in perenne dissidio con l’assuefazione al demone del profitto.
Uno degli esponenti di spicco dell’arte bianca locale, è un pizzaiolo-panificatore di Brugine, un paese a metà strada tra il deserto e il mare, Alessandro Lunardi (Pizzeria Nuvola Rossa), che della semplicità del suo forno a legna, della lievitazione naturale e degli abbinamenti azzardati ma realistici, ha fatto la sua cifra artigiana.
La bassa è soprattutto le sue tradizioni povere, quel senso di conservazione che non può mai abbandonare chi lì ci è nato. Così, le coltivazioni di mais biancoperla e gli allevatori di oca sono l’emblema più caratterizzante di queste lande. Su tutte le aziende agricole, spicca quella dei fratelli Littamè a Sant’Urbano, uno degli ultimi paesi della provincia proprio al confine con il Polesine. L’allevamento di oche li ha portati a tirare fuori il retaggio più classico degli inverni nebbiosi di pianura. L’oca in onto – oca conservata nel proprio grasso – rappresenta quel tocco di povertà resa contemporanea per un prodotto morbido, rosato ma consistente che tocca il proprio apice durante l’estate di San Martino: ai primi di novembre, per San Martino, si macellavano e si mangiavano le prime oche. Ma San Martino era – ed è ancora oggi – anche la festa di chiusura dell’annata agraria, il momento in cui venivano fatti i conti con il padrone e in cui si festeggiava un’eventuale buona annata. Tutto questo veniva celebrato con piatti a base di maiale oppure di oca, il “maiale dei poveri”.
Verso il capoluogo…
Padova non può prescindere dalla Cappella degli Scrovegni, dall’Università, da Prato della Valle e da tutte le sue meravigliose piazze. Lasciare la macchina e addentrarsi all’interno dell’antico Ghetto, attraverso via Soncin, dove si raccolgono piccoli negozi e tradizionali bar dove degustare i tipici “spuncioni”, piccoli aperitivi locali. In Piazza delle Erbe e in Piazza della Frutta non si possono perdere i mercati giornalieri. I banchi pieni di ogni capriccio erano conosciuti, nell’antichità, con i nomi delle donne che li gestivano, perché era l’unica attività loro permessa. Dalle piazze si va verso il Liston dove il clima cambia. I banchi diventano negozi raffinati e caffè storici della Garzeria dove l’intellighenzia locale si ritrovava per discutere e creare.
Lasciare il centro…
…provare a spingersi fino alla Pasticceria di Luigi Biasetto, uno dei Grandi, assaggiare la sua Sette Veli, con cui si è laureato campione del mondo di Pasticceria (con Luca Mannori e Christian Beduschi) a Lione nel 1997, e terminare la giornata in estasi.
Verso le alture…
I colli Euganei hanno una porta d’ingresso: Selvazzano Dentro. Non c’è nulla di particolare, ma una colazione da Denis Dianin (D&G Patisserie) è vivamente consigliata. Da lì si va verso Teolo alla ricerca dei salumi e delle razze del territorio.
Macelleria Beghin. Albano, il titolare, è un cercatore, un macellaio e un grande conoscitore della gallina padovana, recuperata dal professor Baldan, insieme all’Istituto d’Istruzione Agraria Duca degli Abruzzi di Padova, e una delle ultime roccaforti locali, presente sul territorio dal 1300.
I Colli Euganei sono un arcipelago vulcanico dove un tempo c’erano le cave e adesso ci sono i vigneti. Provare un’esperienza di pace a Ca’ Orologio, nella cinquecentesca Villa Dondi dell’Orologio, a la maison di Maria Gioia Rosellini, assaggiare i suoi vini, merlot, cabernet, barbera, e dedicarsi una notte in mezzo ai vigneti e alla storia.
La mattina è da riservare ai boschi, ai parchi, al silenzio, alla cultura ma soprattutto alla perlustrazione di Arquà, quel borgo senza tempo, dove Petrarca decise di trascorrere gli ultimi anni della sua vita. Il paese si sviluppa intorno a Piazza Roma, dove si affacciano Palazzo Marolla in stile gotico veneziano, e la chiesa di Santa Maria, con dipinti bizantini, una tela di Palma Il Giovane “L’Ascensione” e, nel sagrato, un’arca in marmo contenente le spoglie dello stesso Petrarca. Il resto sono piccole vie, acciottolati, angoli perduti, angoli sepolti, viste collinari e momenti gastronomici, tra i vini, le trattorie, l’olio ma soprattutto le giuggiole dell’Azienda Agricola Scarpon e il suo brodo, quel succo liquoroso, ottenuto per infusione, che le famiglie contadine mettevano nei vasi e conservavano. “Andare in brodo di giuggiole”: bassa gradazione alcolica e incredibile dolcezza.
Da lì prendere per la Val Pomaro e il Mottolone e arrivare in vetta proprio mentre il sole tramonta. La Bassa Padovana, Padova e gli Euganei saranno tutti lì…