Gambolò è un’enclave qualitativa al di là di qualunque previsione. Ognuno alla sua maniera, in queste terre di riso e nebbie, i produttori procedono in solitudine attraverso il corridoio che li porterà al macello. I soloni indovini, dell’associazione dal gusto dubbio e dalla predica facile, sono dietro l’angolo per il consiglio domenicale, per portare sulla retta via, tra parrocchie e piazze, le anime disilluse dalle mani rozze e dal meccanismo poco oliato nelle officine di provincia. Qui il deforme s’invera nelle case dormitorio per famiglie modello, dal parchetto dietro la siepe, e nel diroccato postprandiale dei giovani gambolesi, sprofondati nel sonno fiabesco dei vent’anni e delle impennate in motorino tra le zanzare dentro i fossi. Finito tutto, quel che resta deve riproporsi, con le rughe o con i pannolini, come emblema di una provincia italiana divelta dalle fughe e dall’abbandono, per lasciare agli eroici frangiflutti l’ingrato compito di schivare i colpi e di proporre qualcosa che dell’economia non ne fa una fierezza. E così, appena assorto, all’angolo della piazza principale, il bar di Agostino Pastore diventa l’espressione di un inaspettato, un presidio ironico della civiltà.
Gusto è tutto: gestore e bar, un eponimo che non si tira indietro. E non è questione di arroganza, di insegnamento, di modello di vita o di consiglio, Gusto ama veramente ciò che fa come pochi in quelle piazze. E con il passare degli anni, la sua voglia di svegliarsi alle cinque e di mettere mano allo scibile del sapore non è venuta meno. Mentre tu attendi, lui mostra, mentre fai domande lui ti fa assaggiare. Non ci sono condivisioni al di là del realismo. E così anche le critiche, su prodotti non proprio perfetti o su ingredienti da rimettere a posto, passano oltre l’impasse dell’affanno e della scusa. La verecondia non è di questo mondo, perché Agostino ha deciso di fare le cose per bene, di aprire il suo laboratorio, di non trovare (per colpe altrui?!) epigoni che possano seguire la sua deterrente follia e di prodursi tutto il possibile. Dal gelato alla pasticceria, dalla pizza al pane fino alla tostatura del caffè.
Il suo mondo è un perché antico, fatto di temperatrici anacronistiche, di caffè rari e costosissimi (Jamaica Blue Mountain e Kopi Luwak), di cuoci-creme, di dolci con i fagioli di Gambolò, di gelati fuori costo e fuori contesto, di sfoglie salate perfette, di salatini incredibili, con sfoglie tenaci, perfetti contesti per farciture e burro, di croissant senza uovo e di un mondo di errori e di compiutezze che nel caffè abbandonano il rapsodico per affermarsi nel fatto bene. Petroncini sotto i dieci kili, piccole partiture di caffè da tutto il mondo, tostatura leggera con una curva che non supera i 180 gradi, specialty coffee, profumi obnubilanti che vanno dal cioccolato al brodo di carne fino al semplice e ormai rarissimo aroma di caffè, estrazione con Faema, blend dalle acidità bilanciate ed espressi senza enfasi ma con gusto.
I passaggi non sono sempre precisi, le estetiche sarebbero da rimettere in piedi, le stanze del gelato fanno parte di una cultura da giardini pensili, ma è tutto secondario dietro la presenza, dietro quell’unico atto d’amore che continua, giornalmente, a portare Agostino verso un pubblico che non esiste, che è fuori dal teatro in attesa della fine, silenziosa e senza beneficio. Lui persevera nel recitare uno straordinario spazio vuoto totalmente disinteressato all’economicità dell’assunto, del giudizio e della convinzione. Non è un personaggio. Questa è la sua grandezza e la sua necessità. È una persona che ha deciso di vivere come le pareva al di là del contesto. E così, oltre a proporre chicche, tipo rum mattutini miscelati con ghiaccio e frutto della passione, a ribaltare la volgarità in ironia e sarcasmo, a confessare preti e defraudare della serietà notabili, autorità e forze dell’ordine, la sua funzione rimane precipua e primariamente improntata alla realtà: esserci come forma di sopravvivenza e di conservazione…
CAFFE’ COMMERCIO
PIAZZA CAVOUR 1
GAMBOLO’ (PV)