Fobello continua nel suo essere un luogo di passaggio e di ritorno. Sempre attraverso le stesse case e gli stessi giardini. Quelli dove si parcheggia davanti e si ripone la speranza di poche parole illuminanti o di fragranze sottese a decisioni sul pane che hanno creato mitologie e contributi. Si passa attraverso, si bussa e non si trova nessuno. Si va oltre il nascondimento. Si va oltre, si lasciano cadere le parole che non servono, si cercano di capire le situazioni, l’incombenza e la banalità, e ci si ritrova in un paese molto più umano di tutto ciò da cui noi scappiamo tutti i giorni. Luoghi dove si può fare artigianato economico, dove c’è tempo per prendersi tempo e per sbagliare, dove nessuno ti insegue se non vendi, dove il tempo è qualcosa di intimamente pervaso e di violentemente solitario. Le ore si assomigliano un po’ tutte, l’inverno arriva presto e il buio intorpidisce i sensi. E così la creatività rischia il letargo insieme a quelle televisioni sempre accese e a quelle disposizioni cromatiche spostate verso il grigio. E trovare del colore, prima che del sapore, in una casa, che si apre tra il logoro/chic e il provenzale, ultimo avamposto prima dell’alogia buia dei racconti trasognati e nevosi, è qualcosa che attiene alla stregoneria del racconto, a quel bordo del bosco che è sempre stato fascino e malia insieme. Qui Katia Tapella sta provando, ora in solitario, la strada della trasformazione di materie prime domestiche.
Le origini gastronomiche a Fobello si assomigliano un po’ tutte. Eugenio Pol e quella scienza diventata coscienza e campi lunghi. Così sua moglie, Federica Giacobino, insieme a Katia, qualche anno fa decise di mettere in opera le possibilità della trasformazione. Frutta, verdura, confetture e agrodolci. Le spezie di Olivier Roellinger, sommo cuciniere corsaro e nume tutelare delle spezie a Cancale in Bretagna (andateci il prima possibile…), la frutta biologica dei mercati e le derrate “esotiche” del sud Italia. Chutney e piccalilly, incroci tra frutta/verdure e droghe, gli sciroppi, le conserve e quelle giardiniere rivisitate dove cotture rapide, aceti e spezie permettono di mantenere il prodotto con blande o assenti pastorizzazioni. Le clementine, e non i più solitamente aromatici mandarini, in una confettura in pentola di rame a fuoco diretto (il sottovuoto, nonostante i cromatismi più corretti, avrebbe forse tolto quel po’ di poesia casalinga), sono mantenuti croccanti e con listelli di buccia intera, bilanciati alla perfezione con lo zucchero di canna, tengono il colore e un’aromatica meno melliflua di quanto potessi immaginare, il cedro di Castelvetrano ha le stesse virtù, con quel surplus di pectina da albedo che garantisce struttura e soprattutto cottura. Ma è nelle verdure che Katia raggiunge l’apice delle sue lavorazioni, nelle giardiniere, nei chutney e nei dadi vegetali, che guardano le stagioni e le conservazioni, dove i discendenti di Appert, che riescono ancora a trattare senza trattamenti, nella brevità e nelle acidità trovano prodotti rari, quasi dimenticati.
Mirtilli selvatici, lamponi e frutti estivi sono distanti. Piccole quantità di frutta conservata che seguono quasi pedissequamente i ritmi di quella fresca. Qui il magazzino è una scala in legno e dei pavimenti scricchiolanti, Katia nella soavità è un tempo interrotto di prodotti buoni, intelligenti e soprattutto che non continuano a specchiarsi e rincorrersi in percentuali di frutta millantatrici, che non hanno più nulla di sostenibile e nemmeno di mangiabile. Fobello, d’altronde, non si può tradire, nonostante qualche lattobacillo sia sfuggito un po’ di mano…
CA’ DI MORI
VIA RIZZETTI 23
FOBELLO (VC)