Dei profumi assolutamente inaspettati… Alessandro Bignamini

sud milano

Melegnano non è altro che un casello autostradale. In questo nome flessuoso, non c’è nient’altro che un pedaggio da pagare, file da decomporre e un rientro dalle vacanze che rilascia solo nostalgia. Eppure ci sono delle persone che qui vi abitano, che qui lavorano e che qui passeggiano. Esiste un centro, delle rotonde, delle enclave di migliorabilità, uno snodo tranviario, un palazzo comunale, i giardini del castello e un acciottolato che, al di là di tutto, lo rende più piacevole di qualunque svincolo. Eppure, rimane sempre un punto di passaggio, tra l’Emilia e la Lombardia, su quel fiume Lambro che non lascia nient’altro che campi di granoturco e di soia, rogge e strade troppo strette. Così, in una via anonima, di luoghi dove i lavoratori si sono sempre succeduti, almeno fino alla crisi, la famiglia Bignamini-Bellomi, negli anni ’80, dopo aver visto, in un racconto tra il surreale e l’avanguardistico, l’insegna “Amico”, l’ha importata apponendola al proprio panificio.

A monte di una comunicazione anacronistica…

Il signor Bignamini ha sempre fatto il panificatore a bottega, ha imparato l’arte, ha impastato direttamente e non si è fatto mancare i metodologici miglioratori che del passato han fatto un distacco. Un figlio. Alessandro. Poca voglia verso l’obbligo allo studio e il conseguente ingresso in laboratorio. Anni di nottate, michette e francesini, anni di poche domande, molto lavoro, comunque lunghi impasti indiretti, e un pane da servire giornalmente ai soliti clienti, dalle desinenze in “gia o in uccia”. Luigia, Ambrogia, Pinuccia e Mariuccia volevano, vogliono, ma non vorranno più, visto l’astinenza al perbenismo delle cattive generazioni, panini piccoli, bianchi, morbidi, magari al latte, magari da farcire con il prosciutto cotto da dare all’Angelo nella schiscetta anti nebbia. E così Alessandro ha sfornato per anni, cercando in primo luogo una decenza e in secondo un’estetica, il prodotto del commercio, provando a svolgere il ruolo del prestinaio nel migliore dei modi, nel freddo, nella scighera, nei rendiconti, nelle afe estive e nella consuetudine al consumo della pelle tra pollice e indice in cui la pala lentamente affonda le proprie virtù.

Poi sono arrivati i Gruppi di acquisto solidale e hanno innescato – e questo dovrebbe essere l’evento più sorprendente visto le antinomie della ragione che nei GAS rimangono sempre legate al mio dogmatismo da Festival dell’ecologismo sull’isola di Ventotene -, la sua rivoluzione verso la ricerca e verso il lievito madre. Da lì è cambiato il suo modo di fare pane. Dagli insuccessi iniziali, dove i pani sformavano e non crescevano, fino alla filiera corta. Il territorio proponeva poco e quel poco aveva un livello proteico da impiegato sfiduciato. Così, ha cominciato a lavorare con Cascina de’ Lassi, il suo grano Blasco e i cereali del Parco Agricolo Sud Milano, e con Podere Monticelli, il suo farro monococco e il suo farro dicocco. Profumi e sapori innanzitutto. Lontani anni luce i figli di Richemont e il tecnicismo estremizzato in una ciabatta all’80% di idratazione, lunga autolisi e farine da centro commerciale. Alessandro ha provato a seguire uno scorcio culturale che gli era stato aperto.

            Così ha cominciato con la lievitazione naturale, senza abbandonare clienti e bighe. I suoi pani sono pieni ma non pesanti. Vanno dalle bianche e dalle integrali, con aggiunta di semi di lino e di girasole, di mulino Colombo, al Blasco dei Lassi, dal mais di Claudio Merlo al farro di Podere Monticelli. Le alveolature rimangono nel glutine delle farine tecniche di Colombo, ben areate, un filo acetiche ma senza acidità nel sottocrosta. Il naso rimane perennemente impresso nel meraviglioso dicocco di Monticelli. Bellissimo, antico, quasi siciliano, con quei sentori ormai rari simili al perciasacchi o al grano etrusco. Veramente un pane sorprendente. Pezzature da mezzo kilo, che andrebbero raddoppiate di peso per valorizzare maggiormente la serbevolezza, ma visto l’indigenza contemporanea del taglio del quartino, umanamente comprensibili, e croste assolutamente conservative e resistenti. La tecnica non è nella messa in forma o nelle pieghe, e neppure nelle teorie giorilliane o in quelle delle varie scolaresche di arte bianca, è una questione di percezione e di sviluppi gustativi, quelli che continua a posporre, giustamente, alla sua presenza in laboratorio, solo insieme a suo padre, alle spese da pagare e ai clienti da mantenere.

Alessandro ha solo bisogno di comunicazione e di un abbandono della privazione. Ha bisogno di farine e di fragranze, di giornate più pervasive e di clientela più attenta. L’hinterland milanese non viene mai in soccorso, lascia stare, mantiene le tradizioni dell’incolto e se ne fotte dell’esigenza. La crisi è quasi sempre un accumulo e mai uno “sfrondo”. Ecco, Alessandro dovrebbe lavorare maggiormente sull’assenza e sul dialogo, cosicché le sue mani possano cominciare un po’ di racconto…

 

PANETTIERE AMICO DI BELLOMI

VIA XXII MARZO 51

MELEGNANO (MI)

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