Famiglie Artigiane

QUADRO-ARTIGIANI-REMIGANTE

Andando verso sud e ritornando verso nord. Esiste una linea in mezzo, esiste un luogo dove tutto si trasforma, dove la concezione di artigianato, di produzione, di gastronomia, di ricchezza e di povertà cambia radicalmente. C’è un luogo dove l’abbandono prende il posto della coercizione famigliare. Oppure c’è una zona d’ombra dove tutto comincia a sfumare, le certezze iniziano a sfaldarsi, i figli ad essere cacciati di casa, i maestri a trasformarsi da barbe paterne ad una forma di cortesia allocutiva. E così anche i giovani crescono con la mitologia della deferenza e non della fregatura.

Ad un certo punto, anche il caldo, la mancanza di voglia, l’epopea borbonica, il Gattopardo, la mafia, il suq, il bazar, la compravendita, la trattazione, il deserto, il caldo lancinante, il caldo soffocante, la natura selvaggia, il ritmo nel sangue, le zanzare, i serpenti, la giungla e i cantastorie non rispondono più bene al quesito sottile posto tra i volti e le abitudini di Tromso e quelli di Ankara. La ricchezza e la povertà, il lavoro e la disoccupazione, l’urbanistica e l’abusivismo, le piste ciclabili e le mulattiere, l’educazione civica e il mozzicone di sigaretta, il freddo rigore e la straordinaria bellezza, l’educazione e la passione hanno una (sicuramente una, poi ce ne saranno altre centinaia ma Durkheim per ora è in vacanza…) causa dirimente e irrecusabile: la famiglia.

Il sud del mondo è la famiglia, la sua origine, la sua mitologia e, soprattutto, la sua ritualità. La cena attorno allo stesso tavolo, la casa e la bottega nella stessa struttura, il genitore come maestro, la fregatura al di là del bene e del male, il perorare una fissità continuativa che tutto fermi e che tutto non porti oltre. Così, bloccando il progresso, con quel solo tradimento che la traduzione di una tradizione non riesce a portare del tutto a fondo. Con i riti tramandati, ri-tramandati e ri-ri-tramandati. Senza soluzione di continuità, con la centralità domestica ed economica. Un’unica casa, suddivisa in piani, che possa benedire o maledire tutti i giorni della vita insieme. Così si cerca di lavorare con il padre, con lo zio, con il fratello, si raccomanda il cugino o il cugino del cugino perché è un interesse da riscuotere e una possibile fregatura da non prendere.

Ecco il punto, la famiglia è la fissità della terra, quel bene inalienabile che non ha un curriculum da tirare fuori o un colloquio da fare. L’artigiano cresce per dogmi e per ricette. La tradizione che si tramanda è un fulcro di segreti irriguardosi, di corpi nudi guardati attraverso la serratura e di un prodotto che non può mai essere disatteso. Il sud del mondo, primariamente e di principio, è un luogo di prodotti tipici e non di volti ingegnosi. Perché è più facile, perché il guadagno non si sperpera, perché i poveri saranno sempre poveri e perché l’educazione alla classe sociale sarà sempre uno dei primi insegnamenti della deferenza.

Il progresso guarda a nord, prende freddo, si spoglia dei compromessi e delle fregature, abolisce la famiglia, caccia da casa i figli a diciotto anni, fa le pause pranzo, diventa vegetariano, animalista, ambientalista, organico, prosciugato, saluta le persone con una stretta di mano, nemmeno così vigorosa, educa al germe della concorrenza e della deontologia, crea lavori di gruppo, trasforma laureati in ingegneria in panificatori dall’onda surfante, mette a disposizione dieci cestini diversi, fa mangiare in tavoli eco-surrogabili, crea orti idroponici in mezzo a grattacieli, ma soprattutto gela il sangue nelle vene.

E così, senza scale assiologiche, i cannoli, la baklava, il cuscus o il pollo tandoori, sono una previsione del mondo, prima di esserne un piatto tipico, qualcosa che non può mai essere disatteso, pena la morte, la fine e la perdita del lavoro, della comunità e della realtà. Sono quel desiderio che è diventato bisogno.

Ecco, l’artigiano si trova incatenato, in mezzo a questo limbo. Da una parte la vendita, le tradizioni, l’appartenenza ad un territorio, dall’altra l’arbitrio senza religione, il possesso passionale, il disinteresse. Un artigiano, per dirsi realmente libero, è obbligato a vivere e a passare due circostanze fondanti, senza le quali non potrà mai guardare la propria terra e le proprie tradizioni in maniera consapevole. L’abiura della propria famiglia e del proprio territorio, pena diventare una mera ripetizione, diventare un mero risponditore di cassate siciliane, pizze margherite, insalata greca, kebab, tajine, dulce de leche o riso al curry. L’uccisione della famiglia e del territorio è l’unica antitesi da ricomporre nella realizzazione finale, l’unica possibilità di esistere con un proprio nome e un proprio cognome, al di là delle tipicità, al di là degli alberi di limoni fuori casa, al di là del padre che non fa una vacanza da almeno vent’anni, al di là di tutto. Pena: la sparizione dell’unicità, di quella libertà che è un’abitudine diventata scelta. La Scelta. L’unica che può definire nei confronti del mondo. Altrimenti saremo sempre un cannolo o un provolone.

Il cannolo e il provolone devono essere il mezzo, non devono essere abbandonati, devono rimanere lì, come delle fondamenta, come qualcosa senza cui… Il fine deve essere l’umanesimo, l’auto-affermazione, la centralità dell’esistente, la libertà di poter fare a meno della tipicità di un prodotto, del suo territorio e della sua tradizione. Così, quando territorio e tradizione verranno ricomposti e rimessi in tavola, in un pane, in una torta o in un allevamento, ritorneranno ad essere un’abitudine, un discorso e una famiglia, con la velleità di essere stati presi a calci e cacciati di casa, in un appartamentino di frontiera senza arte, parte e dio… Ecco la miglior tutela della sfida. Cultura.

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