Cantù. Mobili e Merletto a tombolo. Conclamato e conosciuto il primo, conclamato e conosciuto il secondo, ancorchè il tempo si sia trasformato in rughe e cenere. Nella mia praticità, affascinato dalle Fiandre e da Calais, ignoravo la Brianza più produttiva. In quella conca dove l’artigianato si è trasformato in industria e in crisi economica, esistono ancora poche e rispettose botteghe, disperse in un mare di rotonde e accenti sprezzanti. Il paese è un ordito di zone industriali, capannoni e vie senza uscita. In una di queste, in mezzo ad asfalto e produttività, l’oasi locale assume il nome di Pasticceria Marra. Alessandro e Carmen sono la nuova generazione di una famiglia di panificatori e grandissimi lavoratori. Niente ferie, vendita al dettaglio, lavoro in laboratorio e boom economico. L’operosa Cantù è un retaggio di miglioratori e lievito di birra. La pasta madre è arrivata con Alessandro, in determinati giorni e senza assolutamente l’assuefazione del padre, anzi.
La discussione, a tratti monologo a tratti dialogo, con quella passione da totale dedizione alla causa, non lascia spiragli, spazi vuoti o tempi per pensare (ho dovuto lasciare passare qualche giorno in più, per ricordarmi i suoi tratti facciali e dare degli argini all’ondata di piena, come si fa con gli innamorati del tempo che fu…) ma la sintesi è comunque troppo ardua: dalla parte di Marinato, ancorché con Giorilli abbia visto nascere il Richemont (dopo un viaggio in Svizzera tra uomi-automi e precisione cardinalizia…), ma la troppa ansia da prestazione e la prosopopea lo hanno un po’ allontanato, sua sorella Carmen è il vero panzer di famiglia, l’ordine precostituito da zero giorni di ferie (un po’ di preoccupazione…), trentasei dipendenti in tre sedi e quest’ultima, oltre mille metri quadri tra laboratorio, magazzino e bottega, ancora sul groppone (economico ed ideologico…), il Ranzani della panificazione, a conti fatti, non è così Ranzani, è solo un lavoratore talmente indefesso da essere contagioso (ho anche pensato di farmi assumere, per entrare in trincea…), l’aneddoto è sempre una parentesi aperta su un’altra parentesi, dopo la tonda, la quadra, poi la graffa, poi infinite porte, nessun discorso esaurito ma un guazzabuglio linguistico straordinariamente icastico (viaggi e continue trasposizioni…), classificazione steineriana dei dipendenti, con tutto quello che riguarda meriti, apporti e stipendi, deferenza genitoriale, coinvolgimento sur-emotivo, doppia-tripla-quadrupla personalità da mostrare, il gusto del cliente, un’estetica panificatoria al di là del gusto, un locale straordinariamente attuale, un laboratorio lindo e perfettamente fruibile, vari diplomi (ognuno con una sua didascalia ironica) e un nitore di rispetto, nonostante l’inarrestabile impeto, raramente trovato.
La spocchia, la maleducazione, l’irriverenza non sono mai passate dall’altro lato. Così i vati e i muratori della molitura sono poco tollerati. Le farine hanno quell’importanza che non può prescindere dalla deferenza. I retaggi paterni, i favori estivi e una “discreta” tenuta in lavorazione non l’hanno portato ancora sulla strada di una netta ricerca, quella del sapore. Poi c’è il caso Quaglia. Anche lui acquirente, anche lui deluso da diverse partite e anche lui in visita al molino alla ricerca di macine a pietra mai trovate. Però rimane Quaglia. Per facilità, per compromesso, per pressione o per prestigio. E si accoppia con le lavorazioni a lievito naturale o a lievito misto, quelle che fa un paio di giorni a settimana. Legato e in bagno d’acqua. Correnti diversissime, maestri diversissimi. Uno su tutti: Teresio Busnelli. Un uomo tranciato dalla discendenza.
I pani a lievito naturale (che probabilmente hanno un filo di birra) sono discontinui con caratteristiche sorprendenti: particolarmente densi, non prettamente acidi, croste brillanti e assolutamente friabili, non eccezionalmente lunghi nella durata. Ad eccezione del farro, pieno e poco alveolato, ricco di sapori e quasi casalingo. Caratteristiche che si alternano con le farine, non creando un’ortodossia di pane. Anche nell’estetica del lievito di birra (tra cui una superba mimesi della stirata romana in stile Pediconi-Marinato e una mafalda palermitana, con il sesamo al proprio posto e una friabilità quotidiana da merenda e da accompagnamento…), l’integralismo lascia spazio alla fantasia, con forme, replicate anche dietro il bancone, decorative e suadenti (con tutti i rischi che questo comporta…).
La ricerca sulla farina non è mai stata portata a fondo. Un po’ come forma di rispetto verso i lasciti paterni, un po’ per una cittadinanza comune tra panificatori. Mulini da un tanto al kilo gestiti da ciabattini infarinati e Mulino Quaglia che, nelle sue mire da Shangri La, ha nascosto i palmenti e le macine a pietra ancora una volta. Petra 9, Petra 1, farine bianche (che paradossalmente ritornano uno dei pani più interessanti e più lungo…), odori e sapori soliti con la tipica sinuosità dei venditori di sogni.
La pasticceria è abbastanza pedissequa e ben eseguita, con biscotti perfettamente quotidiani e liberi da mimesi e uno straordinario dolce con dedica: il Tombolo. L’omaggio agli artigiani canturini, quel lievitato sfogliato che migliora con il passare dei giorni. Bilanciato, corposo nell’uvetta e etereo nel burro. Si piega, si ripiega, si strappa e si sfronda, in una delle dediche più azzeccate che si possa immaginare. Il concetto che diventa materico, rilasciando sensazioni al tatto prima che al gusto. Giù il cappello.
Ma Alessandro, nel suo vortice, ha la convinzione di non abbandonare il suo volto accanto ad un unico prodotto. Di provare, riprovare, sbagliare e cogliere. Secondo i propri bisogni e secondo i desideri del cliente. Nonostante la distanza enorme, le visioni antitetiche e le mire espansionistiche, appena uscito, è già un’assenza. È già una memoria… difficilissima da trasporre…
PANE PASTICCERIA MARRA
VIA SESIA 6
CANTU’ (CO)