Un viaggio è un’attesa pregiudicata dal tempo che dovrai dedicare al giorno che non ti interessa e che non lascerà al presente che un cumulo di immagini e di ceneri. I ricordi diventano pensieri notturni e la tensione verso la mancanza è la prima delle emozioni che ti mette in gioco. Quando stai per partire per il Giappone, la decisione è sempre figlia di una casualità e di un dovere verso il racconto, è come se avessi l’obbligo di afferrare il turistico e miscelarlo con l’abitudine popolare, con l’assenza di punti fermi e di lingue comuni. Prendere Kyoto e impastarla con Wazuka, tralasciare ennesime possibilità, luoghi e tradizioni e scegliere nonostante la confusione diventa un modo di viaggiare di avanguardia che non può fare a meno di lasciare nostalgia. E non dopo mesi ma la mattina seguente all’abbandono, quando rimetti lo zaino in spalla, arrivi su una banchina e pensi che un “sogno così non ritorni mai più”. Oppure sì. Oppure già stai programmando il prossimo viaggio. E comunque arrivi a Kyoto. Pensando di imbatterti in una fiumana di turisti e templi, che la delusione non può che essere dietro l’angolo, che hai già voglia di fuga…e invece ti trovi in uno di quei luoghi per cui vale la pena rimanere senza parole. E così non perdo nemmeno il tempo a cercarne di succulente o elette e mi limito alla descrizione.
L’esodo è simboleggiato dallo yudofu (tofu bollito con l’alga kombu), il luogo è l’Okutan, dove si serve un menù solamente dedicato alla cagliatura della soia, da 350 anni. Un mondo che ho sempre evitato, ha rovesciato il mio approccio all’abiura: freddo e caldo, soia e sesamo, giardino zen e confezione, tè bancha e tè matcha. Un luogo incredibile che basterebbe a se stesso, se non ci fossero i templi, i giardini, le geishe, le case dei mercanti (machiya), il fatto di camminare sempre in mezzo al verde, la pioggia, Gion e le izakaya (Yorozu e Yuki), l’espressione più sincera di una cucina nascosta, che può essere buddista e vegetariana, nata dalla cerimonia del tè (kaiseki), quotidiana e legata ai vegetali (obanzai) o povera e per i cortigiani (yusoku), ma che rimane strenuamente legata alla centralità dell’espressione e dell’estetica come ritualità e definizione. E così i sake si sovrappongono a sashimi, tempure, teriyaki, alghe e verdure lavorate in quell’agrodolce che non dimentica la freschezza. Non sprecate troppo tempo a cercare la foto o il tempio iconico, Kyoto è altrove…
E così ci si trova su uno Shinkansen e ci accorge di cosa significhi maniacalità, quella verso la puntualità e verso la pulizia, quella che si insegna nelle scuole, dove ci sono ore dedicate alla cura della casa e del corpo e dove i bidelli diventano superflui perché la ramazza è affidata agli stessi studenti, la stessa che non lascia cartacce per strada nel paradosso dell’assenza di cestini.
Eppure c’è qualcosa di oppressivo, c’è un tempo mancato che è diniego e vergogna nella sua forma più consapevole, perché insegnata. L’orologio non sbaglia mai. Anche quando dai treni proiettile si passa a linee più espresse o ad autobus più montani. Arrivo a Magome, nella valle del Kiso, in quei luoghi dove Sampei tirava su le carpe e dove si pratica ancora la pesca con il cormorano (Ukai), passando per Nagoya e Nakatsugawa. Sull’antica Nakasendo, la vecchia strada che collegava Edo a Kyoto, il tempo ha bloccato lungimiranza e perdizione, si è deciso di guardare vicino, intorno ai luoghi, di mantenere il passato, il mulino, i ciottoli, i magazzini, il legno, le risaie, i contadini ricurvi e le anziane con le mani legate dietro la schiena. Si è deciso di regalare ancora un’immagine impervia e poetica. Senza smentite, antitesi o ironie. Qui si ha veramente voglia di stare in silenzio, passeggiare, dipingere, rivolgersi all’assoluto, dormire su un futon all’interno di un ryokan, mangiare una simil kaiseki ad orari improponibili e andare a letto alle nove sul frinire delle cicale. Magome è il Giappone che tutti almeno una volta abbiamo sognato…