Il Vietnam centrale ha la guerra marchiata a fuoco e una vergogna inestirpabile che turisti americani e francesi non sembrano portarsi dal passato. Qui hanno mangiato e cacato senza scrupoli, prima gli uni poi gli altri, hanno schiavizzato, devastato, dileggiato e saccheggiato, han mostrato la parte peggiore della dissidenza alla pace e dell’abbandono in mezzo ad un’umidità diventata disprezzo, follia e accanimento. Hanno infierito contro la voglia di non evolversi, sganciando bombe su cittadelle imperiali e “insegnando a lanciare napalm sulla gente”. Epitome dell’educazione occidentale: “non gli hanno lasciato scrivere cazzo sui loro aerei perché è… osceno”. Così il servilismo dopo pochi anni si è arreso nuovamente al mito e l’occidente è diventato l’ennesimo modello di perdizione e usura… anche all’interno di un’identità comunista. Ma il Vietnam centrale è rimasto la storia dei templi (My Son) delle minoranze Cham, piccole Angkor scrostate tra fiumi e vento, le passeggiate tra le lanterne di Hoi An e le straordinarie pagode della vecchia capitale.
Hoi An è la classica patria fortunata, il riassunto del fascino. Influenza cinese, templi, pagode e case di funzionari salvati dalle atrocità, un porto dismesso che le ha permesso di non evolversi, lanterne notturne accese sul fiume, ponti giapponesi e sarti pronti a qualunque realizzazione.
E appena si mette piede fuori dal centro, ci si trova in mezzo a mercati del pesce, ceramisti alle prese con il turismo, straordinari villaggi dediti alla coltivazione (Tra Que), con donne inarcate tra erbe aromatiche e cetrioli, e alla più classica immagine della campagna indocinese, profumo amidaceo, campi di riso verde scintillante e contadini con l’eroico cappello a cono di paglia (nòn là), dove rimarresti inebetito tre giorni se solo avessi una pelle d’amianto per proteggerti dal caldo folle (40 gradi e il 9000% di umidità). Hoi An è anche città di corsi di cucina e di chef famosi. Tran Duc e Vy si sono creati una mitologia attraverso lo straniero, i ristoranti sono interessanti ma perdono un po’ di originarietà. I piatti sono un filo pedissequi, le cotture sono sempre perfette, curate e rispettose di una materia prima rara. Qui i morning glory (spinaci d’acqua) sono una forma di religione animista e così le spezie ricominciano a prendere la forma voluttuosa dell’oriente. Poi per caso, ti sovviene di mangiare del pesce e trovi una topaia straordinaria, White Sail Seafood, dove mangiare ad occhi chiusi e lasciare perdere l’incoerenza di avventori e cucinieri in quella mancanza di rispetto, cifra stilistica di un Vietnam molto più bello del merito intrinseco.
Huè è la patria della cucina imperiale, ha una cittadella incredibile bombardata col napalm dai giustizieri dello zio Sam, stagni di loto, palazzi decadenti, un caldo sciogli-borse e il mercato più assurdo che abbia mai visto. Ci vogliono pazienza, aria condizionata e il The Temple, ristorante ammassa turisti mordi e fuggi che assomiglia ad una chiesa dei testimoni di Geova. Non gli daresti mezzo dollaro… sorpresa… i piatti erano tutti perfetti: sapori, consistenze, la zuppa bùn bò dolce-salata riso e carne, il tofu a la maison, banh khoai e banh beo (tortini di riso al vapore).