Il Bettelmatt riprende sembianze umane… Massimo Bernardini

bettelmatt

Viceno. Frazione di Crodo. In quella terra Walser che, digradando verso il fondo valle, ha cominciato a perdere le sfumature dei pianali, degli altipiani e delle case in pietra e legno, che si sono mantenute anche al di qua delle polente gettate sui paioli, trovando la raffinatezza che il turismo compulsivo da sci sempre in carreggiata non gli avrebbe mai permesso. Questo incedere di frazioni ai piedi del Monte Cistella, dove i boschi sono il voluttuoso e dove il ghiaccio ti ha già ucciso se hai provato ad allontanarti dalle stufe o dai camini, non richiama altro che silenzio e previsioni meteo che, in qualunque condizione, mostrano un Piemonte diverso, dove i Walser hanno concesso distanza e il riconoscimento non è diventato sottomissione. Questo lato di mondo, più raffinato, dove la Svizzera lega nella cura e in cui roccia e verde tolgono quel po’ di ombroso piemontese che trasforma i dialoghi in silenzi, si porta dietro quell’eccedenza di fiabesco che di solito sei destinato a cercare altrove. E il merito potrebbe essere di quegli animali che pascolano, rischiarando.

Massimo Bernardini è uno dei sette produttori del Bettelmatt, quel “pascolo della questua” che in questo areale di mondo, che esclude i vicini di casa come definizione di un’identità che non diventerà mai dinamismo, ha creato la sua leggenda. È passato dalla nomenclatura generica “funtina” all’imposizione verso il cambio del nome, fino all’interesse da parte della critica gastronomica e degli chef, realizzandosi attraverso il palato e quell’erba mottolina, un’ombrellifera aromatica, che nel sapore di pascolo non abiura alla sua origine.

All’interno degli stessi alpeggi, esistono pascoli più alti e più bassi e così il disciplinare permette, ove le possibilità e l’economia consentano di costruire una casera per la caseificazione, di sdoppiare la produzione, assecondando i bisogni delle vacche e marchiando la forma con il nome preciso dell’alpeggio dove il latte viene realmente messo in forma. Gli alpeggiatori delle alpi Bettelmatt/Morasco e Toggia/Regina concretizzano effettivamente questo processo: marchiano i formaggi seguendo i pascoli. E così ci sono ancora delle zone dove sarebbe possibile rimettere in piedi alcune casere e magari trovare un affittuario per rinnovare e garantire possibilità di sopravvivenza.

Massimo è uno di quelli seri, che non si è limitato a farsi scudo da un nome importante, sfruttando il marchio e raccontando ingratitudine, non si è limitato pedissequamente a seguire il disciplinare ma lo ha messo in discussione e lo mette in discussione giornalmente. Il suo approdo è l’alpe Kastell, poche decine di metri al di qua della Svizzera, ed è lì che stanno stagionando ancora parte delle forme dell’ultimo alpeggio. Il Bettelmatt lo si produce per circa due mesi e mezzo all’anno, in montagna le bestie mangiano solo erba, nessun carro miscelatore da quelle parti e nessun fermento, il formaggio mantiene le amarezze che deve avere, non strizza l’occhio alla Svizzera con tutti quei formaggi tutti molto simili, pastosi e dolci (crosta di pane), e nemmeno alla Valle d’Aosta. Il Bettelmatt cambia da alpe ad alpe, da giorno a giorno, da crinale a crinale. Il procedimento è quello della Fontina, una pasta semi-cotta che stagiona bene fino ai 10/12 mesi, il resto è paradosso comunicativo metropolitano fuori dall’economia locale e dentro le tasche dei possidenti apparenti, elastico, con gusti e retrogusti amari, di erba e non di caglio, profondi, lunghi e fioriti. Quattro mesi per un prodotto incredibile. Crosta, unghia e pasta, lo sviluppo è un cromatismo sempre diverso. Basterebbe quello a fare la carriera di un artigiano (c’è anche il nostrano invernale che è un prodotto molto equilibrato e senza “piccantezze” o amarezze eccessive) ma Massimo ha deciso di raddoppiare. In alpeggio, da pochi anni, ci porta pure la capre. Fa una forma presamica, iper acarizzata, con l’unghia accentuata di proteolisi e la pasta friabile. Straordinaria senza mezzi termini.

I Bernardini allevano le loro brune in stalla – stabulazione libera, fieni autoprodotti, una piccola quantità proteica ed erba appena la neve si scioglie -, pochi maiali per autosostentamento, producono qualche salume di selvaggina e salvaguardano una storia che non deve diventare leggenda. Massimo non viene da una famiglia di allevatori, crede fermamente nell’alpeggio come a una forma di sostenibilità estiva e alla cascina come necessità di appropriarsi della propria produzione. Nessun affinatore e nessuna latteria. Chi vuole il suo formaggio, va lì o va in alpe. Punto. Questa è una storia di franchezza contemporanea che non è nemmeno più racconto, è crudezza poetica proprio perché non ha un viaggio ma ha mete ben delineate e volti montani che hanno deciso di non assuefarsi…

AZIENDA AGRICOLA MASSIMO BERNARDINI

FRAZIONE VICENO

CRODO (VB)

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