Decidere di rimanere a Romanengo, piccolo e agricolo borgo alle porte di Crema, in una macelleria dietro una minuscola strada, senza indicazioni e difficile da raggiungere, ha un qualcosa a metà strada tra quello che mi dice la moglie di Franco, “non abbiamo mai voluto abbandonare le persone che ci hanno permesso di diventare quello che siamo”, e la difficoltà profonda nell’abbandonare quei luoghi, annebbiati, ammantati di noia e inquietudine giovanile, che hanno il fascino dell’operosità, del lavoro e del silenzio; che, una delle solite mattine, indicano il solito maglione piuttosto che una persiana aperta su un orizzonte privo di suggestioni.
In uno di questi luoghi, così facili da identificare in quel reticolo ordinato e triste che risponde al nome di Pianura Padana, lavora Franco Cazzamali. Quello che da molti viene riconosciuto come un guru, come il re del Quinto Quarto.
Quando inizio a parlare con lui sono solo dentro il negozio. Non c’è ancora nessuno. Un paio di convenevoli. Mi presento. Provo ad accennargli al nostro trait d’union (La Tavernetta di Elio, ristorante terribile….), quasi vergognandomene. Mi rassicura.
Ancorchè tra tutti gli artigiani che ho conosciuto, lui è sicuramente quello più addentro alle questioni gastronomiche e al mondo dell’alta ristorazione, e nonostante l’altisonanza dei nomi, per lui, venga rappresentata sempre da una scrollata di spalle, su un paio di concordanze critiche, troviamo il contesto su cui riposare il nostro rapporto.
Mi stringe la mano e, mentre è lì per farmi assaggiare un pezzo di battuta di fassone, incrocia lo sguardo di mia moglie. Si disinteressa a me. Con molta cavalleria le offre quel pezzo di carne, chiaramente non immaginando la sua assenza di desiderio. “Intollerante”, abbozza lei. Lui non accetta il diniego. La fissa negli occhi e lei cede. Mangia un pezzo di carne cruda. Poi gliene prepara un’altra con acqua minerale e uovo (cosa che lei soffre più di ogni altra). Lo manda giù e con fare assuefatto si gira verso di me roteando la mano nella maniera dello “straordinario”.
Sono sconvolto. Mentre assaggio a mia volta, non posso fare altro che constatare la personalità di un artigiano che non dà nulla per scontato. Nemmeno un rifiuto.
Gli assaggi mi hanno fatto secco. Gli chiedo della fiorentina. Mi guarda torvo. Mi dice che il fassone (lui fa parte del presidio slow food della Granda, anzi diciamo che ne è una delle origini…) non si presta e anche se si prestasse, sarebbe un taglio a lui sgradito. Filetto e controfiletto hanno tempi di cottura molto diversi. Innalzando l’uno, si svaluta l’altro.
E’ passata mezz’ora. Mi giro verso il centro del locale e mi accorgo di come si sia riempito. Tutti in attesa. Nessuna protesta. Qualche sorriso, qualche orecchio gettato sul nostro dialogo. Nessuna fretta. Né da parte del Macellaio, né da parte del cliente. Questa cosa mi stranisce a tal punto che decido di continuare a parlare.
Mi mostra il suo “Giotto”, quello che gli americani (una nota di disprezzo mista a corrosione culinaria gli appare sul volto) definiscono hamburger. Me lo fa assaggiare crudo. La carne si scioglie letteralmente sulla lingua. Non sono pronto ad una rivoluzione del genere. Mi stranisce il pensiero che la “svizzera”, quella carne “da mercoledì in cui il freezer è vuoto, ad eccezione di un pacchettino di carne trita da scongelare e da mettere in padella per un pranzo solitario e coi sentori in bocca di televisione commerciale” possa essere lo “stesso” prodotto. La certezza è un muro di presunzione. E in quanto presunta, non è mai certa. E così è costretta a cadere. Prima o poi. O attraverso uno schiaffo o attraverso un’illuminazione…
Fortunatamente non sembra accorgersene. Inizia a parlarmi di un prodotto che conosco. Il Prosciutto di San Marino di Silvano Zagaglia, un produttore come non ce ne sono più. “Una mattina” mi dice “mi ha chiamato e mi ha detto che avrebbe avuto il piacere di salire per offrirmi una cena. Quella stessa sera. Più di ottantanni”. Finalmente uniamo le nostre forze nello stupore. Anche lui si sorprende e anche lui, come tutti i più grandi, non fa fatica a parlare del suo maestro e mentore. Michele Martini. Esimio macellaio di Boves. Per cui si metterebbe in macchina, se solo lo necessitasse, per cento grammi di fettine scelte.
Torno in estate. Lui ha meno tempo. Mi invita a rivederci un giorno infrasettimanale, in cui è più libero di articolare i suoi pensieri e di svelare i suoi segreti. Tanti. Mi lascia con una frase perfetta: “io e i ristoratori andiamo d’accordo per un solo motivo: io taglio la carne in modo tale che loro non debbano fare altro che metterla in padella. Nessuna ingerenza. Da entrambe le parti”.
Franco Cazzamali ha un fascino rude, forgiato dalla nebbia e dalla pioggia. Da tutte quelle mattine di viaggio verso il Piemonte, alla ricerca dei suoi animali. Ha quella concretezza del macellaio di paese che chiama tutti per nome, che parla di Juventus, che chiede come è andata la visita del marito o l’esame della figlia, quella sincera curiosità che guarda sempre nella stessa maniera. Tutti.
Che lo fa essere il macellaio degli chef e il creatore di nuovi gusti (ndr il gelato alla carne, fatto insieme a Corrado Assenza) e, nello stesso tempo, il negoziante di fiducia, quello che rimane lì, tetragono ai cambiamenti e alle mode. Come se non riuscisse a scontentare nessuno.
Ha una schiettezza urticante, molto sicura, quasi arrogante. Ha quei modi che le mamme rimproverano sempre ai propri figli. Eppure è un uomo di maniere. Di frasi non dette. Di rimandi. Di mancanza di appagamento. E proprio quella sete ti costringe a tornare. Quella possibilità che non ti abbia detto tutto e che non ti abbia fatto assaggiare tutto. Che tenga per sé il meglio. Che un altro cuoco abbia quello che tu non avrai mai. Il portafoglio Fisher (cit.), il taglio di carne assoluto, la felicità…
MACELLERIA CAZZAMALI
PIAZZA DI RAUSO 1
ROMANENGO (CR)