Inverno Siciliano

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La neve non si vedeva da anni, da decenni addirittura, e la neve, si sa, rende le tradizioni più semplici: da credere, da tramandare e da ringraziare. La Sicilia, per questo, è sempre stata più evasione che credenza, con quella necessità mite di dover perseguire dei riti e dei miti. In inverno il cibo ha sempre cambiato forma e colore, ma la gente ha sempre continuato a fare la fila fuori dalle gelaterie.

Almeno fino alla neve….

Motore perverso di un cambio di struttura e di facilità di canto.

Dentro le case il freddo ha cominciato a tagliare il fiato… più che fuori. Con quelle abitazioni antiche che il riscaldamento l’han sempre visto come un suppellettile. Così i Morti di Joyce con la polmonite perforante diventano gli zombie contemporanei alla ricerca di un pacchetto di sigarette. I capannelli intorno agli stigghiolari, folkloristici di grida e sudore ircino, questa volta emanavano stridii di mani sfregate alla ricerca di calore. Le interiora di pecora si sono trasformate in castagne e vin brulè, con quell’inconfondibile incedere mono-tono da corde vocali spezzate delle voci di borgata.

Il grano si è trasformato in verde, roccia e una punta di bianco. Il Belice non assomigliava più all’Irlanda. La neve ha dato una possibilità alle stagioni, a quell’eccezionalità che fa credere ancora alle feste, che lascia perdere le spiagge e prova ancora a portare il cibo di strada a casa.

Così, arrivare fino a Castelvetrano e trovare lo zio Giovanni aperto è stata la più classica delle epifanie. Una taverna dove vorresti pranzare 365 giorni all’anno perché non c’è nulla di pretenzioso nell’idea di ricerca. È tutto di una semplicità disarmante perché è così facile fare le cose per bene, al di là degli arrovellamenti contemporanei che cacano idee una dopo l’altra e almanaccano luoghi, frutti e pesci mai sentiti. Da Giovanni (lo zio è un epiteto castelvetranese su cui non indagherei a lungo…) non c’è un menù, ci sono pochi piatti che sublimano il maiale, il pesce di giornata e la tradizione dei piatti casalinghi cucinati in maniera casalinga, ci sono le minestre, le zuppe e i minestroni; il polpo appena pescato viene portato tra le tavole e tagliato direttamente dal’eponimo, di vini ce ne sono due, le cassatelle di ricotta sono prescindibili e alla fine del pasto viene messo in tavola il cestino con i colori della frutta. Così per non farsi mancare la confidenzialità di una stanza, di un bagno e di una cucina.

La pretesa arriva dalla vicinanza con il mulino di Filippo Drago, uno dei rari sperimentatori cerealicoli in Italia, uno da prendere per l’invidia di non essere stato il primo a farlo. E così lo stimolo è sempre una proposta, i grani antichi sono straordinariamente profumati e le macine a pietra al posto di essere dismesse vengono implementate e rinnovate. Così, con la voglia di pagare ancora il grano come fosse IL Grano.

Quando le giornate si accorciano, bisognerebbe chiedere ai pasticceri colorati di santità di poter penetrare nel proprio laboratorio per vedere il lievito, la farina di mandorle, la ricotta fresca e le bucce dei cannoli. Poi decidere di comprare. Altre considerazione sul proprio palato e sulla propria capacità di comprendere gusti e tradizioni, andrebbero messe in solaio a puzzare di chiuso. Si eviterebbero fregature, fritture nefaste, digliceridi di maiale essiccato, frutta di martorana comprata al kilo e mistiche pozioni di ricotta e zucchero che dell’inverno non sublimano più nulla. Così, a Palermo, Piero D’Amico è la certezza filologica di andare indietro nel tempo e di evitare inganni, mousse e mitologiche sette-veli. E non è una questione di pasticcerie rinomate o di pasticcerie di quartiere, è questione che qui le cose seriamente le fanno sempre in meno e la merda glicemica è dietro qualunque angolo.

L’altrimenti è quello di andare nei giardini di agrumi sotto la montagna di Ciaculli e di Santa Maria di Gesù, trovare una strada che s’inerpica, farsi rapire dalla sinestesia di profumi e colori dell’inverno siciliano, staccare un mandarino dalla pianta, annusarne le foglie, annusarne la buccia e mangiarne la polpa… ecco… non serve molto altro per riconciliarsi con il desiderio di Sicilia… di quel luogo tanto umano da non avere delinquenza, burocrazia distopica, politica corrotta, spazzatura in mezzo alla strada e scaglie di cemento al posto dell’archeologia… amore incondizionato…

 

(foto: fotocommunity)

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