La bontà si nasconde almeno quanto la bellezza… Giancarlo e Emanuele Comi

Missaglia. Grazioso borgo della Brianza lecchese, scenograficamente acciottolato e preposto, all’inizio di disinvolte colline, boschi, fiumi e un silenzio irreale a mezz’ora da Milano.
Girata una curva, la mia macchina si trova a passare, per caso, davanti ad una pasticceria. Conosciuta. Mi riporta a Re Panettone, ma mi confonde. Pensavo a due sorelle sull’anziano andante, poi vedo due basette, a metà strada tra il Joe Cocker di Woodstock (con With a little help of my friends in sottofondo) e un personaggio da sit com americana. Gli stringo la mano. Ci riconosciamo. Gli ricordo il nostro trait d’union, il solito Achille Zoia. Eccoci.
Prendiamo due spremute d’arancia e due croissant alla marmellata. Pomeriggio inoltrato. Periodo sconsigliato per questo tipo di lievitati. Emanuele mi guarda e mi dice “Pasta madre”. Annuisco. La fragranza è solo in parte data dal lievito utilizzato.
La farina (Dallagiovanna, della più classica scuola Zoia-Massari, ndr) fa il resto.
Nel più stupido degli errori pomeridiani, rimango frainteso.
“Vieni in laboratorio”. Mi aggiro tra attrezzi vecchi di sessant’anni, panettoni e veneziane appena fatte e molto acciaio. Emanuele descrive e prova con noi se i dolci gli siano riusciti o meno. Non si fida totalmente del suo giudizio (e nemmeno del nostro), ma vuole essere corroborato da quello di suo padre. Che si fa attendere. A metà cammino, tra una bella signora con il vezzo della ruga e la pubblicità dell’uomo del monte.
In questa sospensione del giudizio definitivo, inizia il mio viaggio con Emanuele, un gentile e appassionato pasticcere della Brianza.
I suoi modelli possono essere quelli di molti che intraprendono questa professione.
I corsi, tra la Cast Alimenti e i viaggi intereuropei, non l’hanno portato alla fuga.
Ha scelto di rimanere con suo padre. I litigi hanno rinforzato il loro rapporto. E quando gli chiedo se ha mai pensato di andarsene per percorrere la sua strada, mi guarda tra il semplice e lo stupefatto. È rimasto lì e ci continuerà a stare. Vorrebbe demolire il concetto stilistico e la forma mentis che profuma di naftalina. Quel nonsoche di agè che prevarica il rapporto con il cliente. Ma le sue basette, la sua parlata cristallina e la devozione per quel mondo e per quel mestiere, non rimangono sotto traccia.
Fuoriescono anche nel rispetto per il prossimo. “Non resto sempre in laboratorio. Mi piace venire al banco, chiacchierare con i clienti. Fare assaggiare, ascoltare i giudizi e guardare negli occhi…”.
In maniera stralunata, mentre io sto parlando con suo padre Giancarlo, sento una frase che profuma di bucato, sincerità e umiltà: “Un giorno mio papà ha presentato un panettone ad Iginio Massari e lui, per tutta risposta, lo ha assaggiato, preso e gettato nella pattumiera. Quel gesto gli ha dato una carica incredibile per migliorare”.
Giancarlo ha superato i sessant’anni. A diciannove ha aperto, dal nulla, la sua prima pasticceria a Missaglia. Gli anni precedenti lavorava in fabbrica fino alle 15,30 e poi inforcava il motorino per andare a Milano, in via Molino delle Armi, a frequentare i corsi di Giulio Mapelli (e dei grandi lievitisti di Alemagna, tanto cari a Giovanni Rampinelli…). L’attenzione per il lievito e per la materia prima non lo ha mai lasciato tranquillo. Massari e Zoia avevano cominciato a porre le basi e, prima Giancarlo, successivamente Emanuele, hanno iniziato a seguirli. A raddoppiare gli ingredienti (burro e zucchero) per raggiungere una leggerezza che non ha eguali.
“Che sapore ricerchi quando annusi il panettone?”, io.
“Il profumo di burro”, lui.
E quando arriva Giancarlo per corroborare o smentire la bontà del prodotto, iniziano una discussione sull’apertura e la chiusura delle occhiature che diventano, viste da uno spettatore esterno, l’emblema di un rapporto che raggiunge la complicità nel gusto.
Giancarlo ha qualcosa di tranciante, mi ha concesso i suoi occhi dopo dieci minuti che parlava con suo figlio. Poi qualche nome ci ha unito. Infine è arrivata l’atmosfera Massari che ha creato il contesto, lasciando lontano anni luce i suoi detrattori. “Il più grande pasticcere al mondo”. Senza nessuna velleità di dimostrazione e senza nessuna ironia, mentre suo figlio mi mostra “Non solo Zucchero” del Maestro, vera e propria Summa Theologiae in divenire.
Lievito legato, ricette prese a prestito, foto esposte e assoluta ammirazione. Ecco le ricette per un panettone e per una veneziana che mi hanno lasciato un’emozione addosso, qualcosa di rivelatore…

  – Color ambra, occhiature strette e allungate, uvette (nel panettone) che si alternano alla canditura (l’unica presente nella veneziana) equilibrata e poco dolce. Il panettone ha questa forte sensualità di burro, una pasta meno umida e un sapore più raffinato. 
La veneziana, nella sua similitudine con la colomba, ha una ghiaccia di mandorle e zucchero, una sofficità più accentuata e un gusto che si adagia sulla parte morbida del palato. Sopraffina.

Gli occhi di Emanuele rimangono sgranati, anche quando racconta delle scelte delle materie oppure quando mi fa assaggiare le sue paste di mandorle che, con semplicità e futuro, mi dice derivino da una ricetta di Massari (ecco come la bontà possa essere figlia di un’ammirazione…) o infine quando mi mostra i suoi macaron, che assomigliano di più ad un amaretto e ad una tradizione italiana, scusandosi di non poterli proporre nella loro ancestralità, a causa di due personaggi, Pierre Hermè e Luigi Biasetto, emblema di rarefazione e solitudine.
E continuano a rimanere sgranati anche quando lo saluto con l’affetto di un ragazzo che ha sconfitto la tradizione, riguadagnandola come una scelta…

PASTICCERIA COMI
VIA CAVOUR 4
MISSAGLIA (LC)

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