La Borgogna del Sud e le Charolaise al pascolo

charolaise

Saona e Loira. Macon, capoluogo senza isterismo dove la tipicità francese si spoglia di raffinatezza per addossarsi le colpe di un meridione sapido e fascinoso, è una città che nel fiume lava tutta il suo multi-culturalismo. Viali larghi e poche persone, le pasticcerie sono l’ultima traccia di un rapimento tenue che in mezzo al verde non ha dilapidato le proprie ricchezze.Il cioccolato di Bernard Dufoux è di una bellezza quotidiana, da paese di ogni giorno, in modo che ogni angolo abbia la sua bottega, gusti pedissequi e la solita necessità di contrasto, la pasticceria di Joel Noyerie è fucsia, caotica e piena. Le monoporzioni sono raffinate e accatastate. Dacquoise perfette e l’Ideal Maconnais (dolce rappresentativo) ricco di una crema un filo troppo cotta. La città è l’ultima delle circostanze per trovare ancora legami e punti fissi, per riportare alla luce quella Borgogna fatta di filari millenari, di leggende assurde, di prezzi fuori dal mondo e di un’estetica assolutamente pulita e riguardosa. Qui, nella Borgogna del Sud, i vigneti sono meno catturati, i luoghi di confine che vanno verso il vino novello poco interessanti, i castelli chiusi, le rocche estreme unzioni turistiche e le stradine l’anima di una collina che lentamente inizia a farsi bosco e letame. I paesi hanno mantenuto intatti i colori della terra. Il rosa diventa marrone e le sfumature non sforzano mai, nemmeno nelle persiane o dentro i vasi. Appaiono meno e ovunque. Le cantine rimangono quasi stilizzate. Non c’è più una volontà se non quella della pioggia.

Finiti i filari, superati gli ultimi passi di alta collina, al di là di quella visuale che non racchiude più nulla, iniziano a mentire le matrone e ad apparire gli artigiani. Quelli che vengon su in mezzo all’erba. Caprerie, forni di campagna e allevamenti. Con un’unica regina. La Charolaise.

In Italia è sinonimo di culoni da ingrasso, di bestie arrivate da chissà dove, di generici allevamenti dove la filiera è un buco nero, ma qui viene inverata vieppiù, se mai ce ne fosse stato il bisogno, quella definizione che mi regalò un grande macellatore piemontese “gli italiani sono i più grandi macellai ma sull’allevamento i francesi sono anni luce avanti”. Ed è così. Senza perplessità. Anche per una questione demografica ma soprattutto per una questione culturale. Magari la carne non la sanno stagionare, non sfruttano tutti i tagli della bestia, si fermano all’impasse gastronomico… magari… ma quegli allevamenti, che allevamenti non sono, sono semplicemente delle divisioni demaniali distanziate da muretti con il territorio totalmente dedicato alla crescita del pascolo. Lì si crea bellezza, cultura, paesaggio e tradizione. Con una vacca in mezzo al verde. Bianca, alternata dalla sporadica presenza di qualche Limousine, magra (a parte i classici invecchiamenti da ingrasso), silenziosa… giorno e notte. Con la stagione delle stalle lontana e nascosta. I ricoveri ci sono ma non ne percepisci la presenza. E poi appena prima di Charolles, il capoluogo eponimo, ti fermi a la Ferme des Bruyeres e assaggi un taglio nobile… marezzato, morbido, erbaceo… e ti accontenti anche del lusso…

anzy

 In mezzo…

ci sono donne che hanno deciso di abbandonare la città e di iniziare a panificare. Sylvie Limouzin-Bricard non ha l’estremismo dei paysan boulanger, ma ha deciso di costruirsi un forno a legna con fuoco diretto e un piccolo pastin per la lavorazione del suo lievito madre, rimettendo a nuovo una cascina insieme a suo marito. Cote Pain, a Montmelard, è l’idea di una macinazione a pietra e di un’estetica borgognona. Segale, monococco e semi-integrale al servizio di acidità sospinte ma assolutamente durevoli.

ci sono oleifici (Huilerie artisanale J. Leblanc et fils a Iguerande) che hanno deciso di trasformare tutto il possibile. Dalla senape con l’estragone, uno schiaffo nella notte, agli oli di colza tostata all’antica, straordinario, dagli aceti balsamici a quelli di mela fino alla lavorazione della frutta secca. Monsieur Leblanc ha un laboratorio di ferri vecchi da lasciare ipnotizzati. Presse a freddo dell’800, tramogge e ruote in pietra. Da rimanerci lì due giorni…

ci sono macellai che lavorano la charolaise e nobilitano il maiale. Jean Louis e Sandra, a Trambly, hanno deciso di trasformare, riscaldare e grigliare tutti gli allevamenti del territorio…

ci sono cioccolatieri che hanno preso la fava di cacao come una conversione estetica. Francois Pralus, tra Charlieu e Roanne, ha creato botteghe di quell’artigianale raffinato che toglie la terra sotto i piedi. Per mancanza, noi dovremmo cercare lì. Tra le origini tropicali, tra un Colombia e un Papuasia, tra la lecitina di soia e il burro (caratterizzazioni scioviniste indissolubili), tra l’acidità del lampone e l’astringenza dei trinitari, le composizioni di Pralus sono assolutamente originarie. È lì che si caratterizza l’artigiano…

ci sono chiese romaniche in mezzo al nulla, con un muretto a secco, del vento, un’eco e un sagrato, che ridefiniscono la stupefazione del male. Così nella normalità di un sole che cala, l’abbazia di Anzy Le Duc è un vuoto nella ricerca turistica. Uno di quei momenti…

… e così può capitare di trovare locandiere nobili con vitigni in Svizzera (Les Dames de Hautecour) che maturano sui lieviti e creano accoglienza con vasche in mezzo alle vacche e silenzi talmente irriconoscenti da non lasciare dormire… Tollecy è un passaggio medievale di finestre e parquet scricchiolanti…

 

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