Arsego di San Giorgio delle Pertiche. Pianura Padana. Pochi kilometri da Padova e dall’autostrada. Un fiume, qualche fiumiciattolo, qualche torrente e il massiccio del Grappa all’orizzonte. Un fruttivendolo, qualche bottega, degli incroci, macchine transitorie, qualche siepe a nascondere la borghesia, dialetto marcato, assolato e poco adorno alla chiacchiera, volti periferici da mode passate per le metropoli e arrivate fuori tempo massimo, ma ben definitorie della provincia. Non c’è null’altro, non fosse per un angolo di strada dove un prato inglese inclinato cinge un locale dal nome perfettamente in linea con l’anacronismo topografico. “Marisa” è un nome antico, assolutamente inattuale, da zollette di zucchero, odore di naftalina, pavimenti di graniglia, scialli sulle spalle e porte a vetri opachi. Il mio pregiudizio è quello di foto in bianco e nero, banconi in legno lamellare d’abete e un’arte povera frutto di sacrifici e sudori. Dissolvenza in nero.
Dissolvenza incrociata. Approdo oasistico che supera nettamente la sua definizione. La pasticceria di Lucca Cantarin (quell’errore all’anagrafe che ti porti dietro per tutta la vita…) e della sua famiglia, sorella Erica e mamma Marisa, è uno straordinario monolite padano.
L’interno è contemporaneo ma raffinato, con un banco “mignon” sorprendente anche al cospetto dell’elite monocromatica. Un kiwi, rifinito, stilizzato e sormontato da un mirtillo a chiudere un cestino di pasta di mandorla. Un pasticcino straordinario, con tutti i sapori al posto giusto, senza esacerbare sensazioni e senza cervellotiche missioni di gusto. Classici mignon e bignè che, nella composizione, ricordano il sud. Una pasta umida e più pesante, dimensioni elevate ed evolute, da assaggio unico. Pieni, di nocciola o di crema pasticcera. Estremamente gustosi. I contrasti sono quasi sempre azzeccati, anche quando c’è esotico su esotico. L’acido arriva sempre ma mai come un’imposizione di senso. Il lampone non è una necessità, nemmeno nella tartelletta strutturata a torre. I dolci sono dolci ma di una raffinatezza naturale. La digestione è già un complemento. E non c’è nemmeno la superbia che ogni tanto fa capolino tra le parole.
Lucca appare con la scorza giovanile del pasticcere da claque. Un filo di arroganza, ottima apparenza, comunicazione di retroguardia e sarcasmo da “nouvelle vague contro il principio di autorità”. Le somiglianze d’impatto mi portano al ribellismo, ma tutto va a chetarsi con il dialogo… eccezion fatta per la sua decisione, incisiva e spiazzante.
La gelateria di famiglia è in piedi da lustri, la sua volontà di rimanerci dentro, in giovane età, è andata e venuta. Il lavoro di sala si è compendiato in un colloquio alle Calandre. “Mi spiace, ci serve un pasticcere”. “Posso provare?”. Lì sono trascorsi 3+2 anni. Gestione del lievito e gestione dei tempi. Poi Torreblanca in Spagna, la sua stima più profonda, quel pasticcere che è sempre un passo oltre, innovativo e silente. Rientro in Italia, un anno da Biasetto, l’autorità settaria, neurolinguistica e motivazionale, la produttività prestata all’artigianato, il più europeo dei nostri pasticceri. Limiti e possibilità. Lucca lo sa bene, rapporto personale e rapporto lavorativo sono intangibili e incomunicabili. Così bypassa le provocazioni. Rientro fugace da Alajmo e Pasticceria Marisa. Quella dei genitori e quella della sorella.
I clienti, ancora oggi, sono legati alle tradizioni dei genitori. Lucca ha da poco stravolto la ricetta del gelato ma non ha fatto nessuna comunicazione. La paura del ricordo è un ottimo deterrente. La figura della madre e del carretto dei gelati del nonno (a metà strada tra industria e artigianato…) impongono la lentezza del futuro.
Dove si può rivoluzionare senza retaggi è nella pasticceria. La gestione del lievito è azzardata, forse naif, sicuramente eversiva. Conservazione a freddo, attesa e nessuna folle ricerca di temperature, sudori e palpitazioni. Le ore di fermentazione sono sempre diverse. La base è un bagno d’acqua. Nessuna regola, nessuna autorità. Bisogna andare dove porta il lievito. Nessun epigono e nessuna fama, troppo rapsodico per essere trascritto. L’unica testimonianza rimane il suo panettone.
Estremamente buono, sfogliato, aereo, di una leggerezza rara. Profumi di burro e vaniglia al naso, il gusto è agrumato e compatto, senza un sapore che prevalga. Farina Quaglia (come in tutte le produzioni) di cui è il più fiero alfiere che ho incontrato. In parole spicce: lo sviluppo scientifico dato alla farina e alla molitura è la base della situazione contemporanea dell’arte bianca. Non mi adeguo ma ascolto. Esaltazione: un panettone diverso, quasi quotidiano.
Ha capito che dal laboratorio non deve uscire lui ma i suoi prodotti. Rifiuta gli eventi e punta sull’estetica del biscotto (belli accoppiamenti, mai banali e mai avventati…). Tubi di metallo e stilizzazioni sulle etichette, in modo da potere essere integri e riconoscibili sui mercati metropolitani. La sicurezza abbandona il predellino e sfida la concorrenza.
Lucca è un po’ dentro e un po’ fuori dalle nuove generazioni. Nessun applauso e nemmeno parole di scherno nell’orecchio dell’amichetto. Gli applauditori prezzolati lo schivano, rilasciandolo un po’ più vecchio e un po’ più solo. Ma lui, all’angolo tra la nona e la tredicesima di un paese fantasma, nemmeno battuto da un vento confortante, ma solo stantio e dialettale, ha preso una strada diversa, un filo confidenziale…
PASTICCERIA MARISA
VIA ROMA 422
ARSEGO DI SAN GIORGIO DELLE PERTICHE (PD)