La focaccia corre sul Tigullio… Ezio Rocchi

Sestri Levante. Continuo a guardare il cielo. Pioggia, nuvole, sole e poi ancora pioggia, nuvole e sole. Il clima ligure è un luogo comune che non riesce mai a smentire se stesso. Ma deve essere la Liguria con il suo incoraggiamento dialettale ad aprire le porte del già visto. È tutto uno scorrere di paesi definibili con volti famosi, piccole passeggiate, attracchi di navi da crociera e negozianti locali, deterrente estremo per la voglia di pagare. Sestri Levante è un groviglio di caruggi dalle persiane verde pescatore, si respira prima l’aria del passeggio che quella del mare. C’è quella nostalgia autunnale da montagna a picco che non riesce a passare. Le persone vanno e vengono in mezzo ad una patina e ad una geografia che non è se non qui. Le case hanno la suadenza delle facciate. Anche quando inizia la salita, c’è quel sentore di contaminato che non abbandona mai queste terre. Non c’è trasparenza e non c’è apparenza. È tutto molto profondo, poco candido. Assolutamente selvatico.

Il panificio “Spiga d’oro”, dove Ezio svolge il ruolo consulente tecnico, è urbano, su una via di passaggio, pieno di turisti e milanesi con la voglia di tornare a casa con lo stupore di venti secondi di forno a microonde e il vicino di casa in imbarazzo sulle frasi da utilizzare. Qui dentro, però, nel più quotidiano dei forni liguri, sperimenta Ezio Rocchi, l’immagine di una panificazione sofferente ed entusiasta. Un grande lievitista dall’estremismo naturale. Un libro già scritto, una vita al di là del pane e al di là di tutto, senza compromessi. Il grigiore rivierasco diventa un parossismo di “già visto”.

Difficile stupirlo e difficile disinteressarlo. Lui è stato un ragazzo degli anni ’80, ha visto morire e ha visto far morire, è passato dal massimo dello splendore economico fino al peggiore dei crac finanziari. Ha avuto debiti e ha avuto crediti, macchine di lusso e il più classico dei non sapere come arrivare alla fine del mese. Ha sempre tenuto dalla sua parte la malia del sorriso. Indefesso, quasi illusorio. Ha avuto quaranta dipendenti e si è ritrovato da solo a dover ripartire. Ha preferito bruciarsi che mettere sul lastrico, rifiutare delle gambe aperte piuttosto che tradire un amico. E così è rimasto vivo. Un po’ per caso, un po’ per sorte, un po’ per necessità. Dal suo interesse per la pagina scritta ai suoi master, dai suoi corsi al suo coaching contemporaneo. Non avendo la solidità accademica, ha dovuto applicare l’uso per arrivare alla fine della giornata. E così può urticare, può solleticare, può affascinare o può irretire. L’arte bianca è anche una consulenza. Da buon ligure è una possibilità economica: per lui e per l’altro. Non ha un prezzo all’ora, ma un prezzo a prodotto. E quel prodotto deve far guadagnare molto di più della spesa. Il resto è chiacchiera. Ha la sovrastruttura di quello che si è sempre trovato fuori luogo. O troppo avanti o troppo indietro. Così ha deciso per qualcosa di definito, per poche ricette e per una focaccia che non esiste se non qui.

Farina messa punto con mulino Grassi (con cui sta ultimando delle ricette con il grano del miracolo di Claudio Grossi, fuorilegge della campagna parmense…), la cui ricetta rimane segreta (l’unica cosa che trapela è l’aggiunta di micro-organismi all’interno…), lievito di birra, spianatura ad hoc per i suoi “allievi” e impasto imprescindibile dalle sue mani. Così la preparazione è una cella frigorifera dalla misteriosa alchimia. Il laboratorio è piccolo, la madre, lattica e assolutamente in controtendenza con i conservatori contemporanei, è tenuta in acqua, chiusa dentro e sotto, le celle sono poche, l’impastatrice è una, il forno è a flusso continuo. Fino alle 11.30. Perché a quell’ora l’ultima teglia di focaccia è andata finita. E così il milanese col maglioncino azzurro è rimasto all’asciutto. Il prodotto, senza grassi nell’impasto, con l’olio, a bassa acidità, aggiunto in stenditura e in rifinitura, è veramente diverso: friabile, anche dopo la conservazione, maturato bene ed estremamente digeribile, nessun retrogusto, perfettamente basico e segnato con forza per una perfetta distribuzione della salamoia.

Questa focaccia ha un perché, ha una storia, che è quella dei forni rotativi genovesi dove tutti hanno imparato, che è quella degli scambi commerciali con l’Arabia, che è quella del dialetto e della quotidianità di un popolo abituato a mangiare questo prodotto. Così la rivoluzione può essere lenta e silenziosa. Il clamore allontanerebbe e spaventerebbe la consuetudine. Anche perché, questi scambi tra tribù hanno avvicinato il Medio Oriente e la Toscana, hanno introdotto il formaggio da associare alla focaccia e la prima autolisi contemporanea: alla fine, come sottolinea Ezio, la focaccia di Recco che cos’è se non questo?

Il suo libro consta di troppi aspetti, di prodotti consueti, di farine quotidiane, di occhi sgranati, di storie da “tropici del capricorno” e di pulviscoli alluvionali sospesi in uno stupore materiale e materialista. Il fascino è sempre un’onta del guadagno. La purezza non è di queste passeggiate e Ezio lo sa bene. Studia la comunicazione e la Pnl, cerca di recuperare un’estetica e un principio. Così rideva e ride Ezio Rocchi, mentre la materia grigia viene calpestata dagli imbonitori del solleone…

 

EZIO ROCCHI

eziorocchi@alice.it

SESTRI LEVANTE (GE)

max

…Ezio è molto più e molto meglio di come questo pezzo a dire il vero un po’ narcisista lascia trapelare dalle evoluzioni verbali. Ezio è un Uomo vero, come non ne fanno più, come quelli di una volta… e ha due palle così. Punto. La migliore focaccia della mia vita è secondaria.

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