Confine tra la Val Seriana e la Val Cavallina, in quel nulla bergamasco che è rimasto talmente isolato da non lasciare nemmeno il sollievo di mantenere la tipicità qualcosa di tradizionale. Bianzano è un luogo con dei ciottoli, un centro, un castello, il disinteresse di portare gente a 600 metri d’altezza con una vista riflessa sul lago d’Endine e quella lontananza dal divertimento che non è nemmeno passeggiata. La Valle Rossa è un lunga strada con qualche stalla e un paio di bar non arrivati nemmeno all’estetica del passaggio. C’è una natura incoerente, selvaggia, con quel nascondimento da azienda agricola rimasta sepolta dal passare del tempo, senza l’essere notabile di qualcuno che ce l’ha fatta, che ha dato in pasto questa valle al mondo. Qui è tutto non proibitivo e privo di mistero, c’è ancora il fascino di qualche castagno, ma è tutto estremamente docile. E allora si poteva ricorrere al giallo o alla leggenda. E una stradina a lato della provinciale, che si inerpica qualche centinaio di metri in mezzo all’umido, è il luogo per il racconto di qualcosa che ha fatto voltare più di uno sguardo.
Michele Andrioletti è allevatore da generazioni, ha sempre prodotto la tipicità dei formaggi delle valli bergamasche senza richiedere mai nulla indietro. Questi sono luoghi di stracchini e di formaggelle, i nomi non hanno mai avuto una conformazione sociale, sono sempre rimasti un giro indietro. Qui non si scimmiotta chi con la comunicazione ha creato mitologie e soprattutto assenze, non si alimenta il desiderio, la brama di possesso e l’idea di una ricerca oltre il gusto. Michele ha sempre lavorato con i milanesi in vacanza perché il miglior profeta è sempre quello che in patria non c’è mai stato. E così fino ad un paio di anni fa. Perché, parallelamente, non lontano da lì, stava sviluppandosi un’altra storia, questa sì intrisa di leggenda, di atavismo e di stupore…
Attlio Perego è un pensionato milanese con origini in val di Scalve. Più di venti anni fa, durante il restauro di una baita di famiglia, nella frazione di Nona, a Vilminore, all’interno del muro del camino, ha ritrovato una scatola di metallo con dentro un piccolo quaderno probabilmente di un allevatore. L’anno del timbro comunale recitava 1753. Abbandonato per anni e per mancanza di tempo, quel quaderno è stato ripreso in mano, per caso, dallo stesso Perego. Era scritto in gaì, un dialetto parlato dai pastori bergamaschi. Una recitazione che non conosce più nessuno. Eccezion fatta per qualche anziano. Così una novantottenne scalvina ha cominciato la traduzione. Ma parte del testo era stata mangiata, la parte finale, quella ricetta di quel particolare formaggio, era stata troncata. Gli ingredienti c’erano, mancava una parte del procedimento, il casaro che potesse rimetterla in piedi ma soprattutto qualcuno che avesse voglia di sperimentare dei nuovi finali, passare attraverso l’empirico errore e continuare a riprovare. Ecco, dopo lo scetticismo dei pastori della Valle, Attilio si ricordò di un allevatore/casaro in Valle Rossa con il classico grado di parentela. E così Michele Andrioletti decise di sperimentare, per trovare un prodotto iconico che rappresentasse loro e la Val di Scalve.
Mesi di prove, errori, muffe, cagliate buttate, formaggi gettati, formaggi gessosi, stagionature con la tara, risultati asciutti e rotture della pasta: il procedimento, ancora segreto, in divenire, era qualcosa di assolutamente nuovo. Nessuno faceva più formaggio così, probabilmente da secoli. Pepe in crosta e grani in pasta, doppia mungitura di solo vacca, forma cilindrica e pasta una punta elastica. All’apparenza un pecorino siciliano… qualcosa di assolutamente antitetico. Il primo impatto col gusto è normalizzante, senza fascino e non particolarmente lattico. Ma bastano pochi secondi. Il retrogusto è un’esplosione di nocciola e, più ci si avvicina all’unghia, di prosciutto affumicato. Ha una dolcezza pungente rara. È senza paragoni. E non è necessariamente una nota di merito. Ma è così. Ha trovato il suo mercato, le sue invidie, i suoi ristoranti. In Val di Scalve lo volevano chiaramente restituito e, dopo averlo assaggiato, la cooperativa ha provato anche una riproduzione di cui non si sa ancora nulla.
La novità ha attirato più della tradizione. Nonostante tutto. E così gli stracchini (con qualche problema fermentativo e molta struttura), i simil formai de mut, le formaggelle estremamente lattiche e proteolizzate con quella mantecatura che gli strachì non riescono mai a raggiungere per via della cassetta, sono formaggi di passo, quotidiani, routinieri. L’eccellenza non è più nel gusto ma nell’eccezione. In quel potere di redenzione che solo l’Uno può continuare, vieppiù nel paradosso, a concedere. Ma Michele ha un’impostazione talmente gentile, che dell’allevatore di brune alpine non gli porteranno via nemmeno il cappello. Perché la sincerità ha sì bisogno di scosse ma necessariamente si deve volgere indietro, verso tutti i giorni. E lì Michele, con le sue galline e i maiali che gli portano via il siero, continua a mostrare una tranquilla dose di noncuranza. Perché i viaggi, gli Expo, le leggende e le attenzioni sono solo lo sbalordimento estemporaneo di un borghese o di un giornalista…
AZIENDA AGRICOLA ANDRIOLETTI MICHELE
VIA VALLE ROSSA 11
BIANZANO (BG)