A che punto siamo?
A un punto morto.
Una risposta indefinita che continua a guardarsi indietro, a cercare l’origine, a riportare l’ingrediente ad un enigmatico retaggio. La tracciabilità, epopea di un passato grasso senza troppe domande dove si mangiava senza colpe, è diventata un algido contenitore usato perlopiù come clava e come convinzione.
Perché siamo in Italia baby!!! E qui non si scherza. Non ci fanno fessi le multinazionali con le loro conniventi etichettature degli ingredienti e quella non necessità di stabilire lo stabilimento di provenienza della produzione. Non ci fanno fessi i compratori di cagliata congelata dalla Germania, di tritato di maiale da luoghi imprecisati e di semi-lavorati imparentati con i controllori sanitari che prevengono senza provenire. Lì sì che è una lotta continua contro i mulini a vento!
Qui, (invece) nelle botteghe artigianali, si compra il nome, il panettone del pasticciere di grido e il gelato del gelatiere azotato.
Il quasi fu (è un fu anti-metonimico riferito alla sua parte artigianale) Alberto Marchetti è stato uno dei primi a porsi il problema su quello che doveva essere mostrato ai suoi clienti, su quali ingredienti del gelato andassero comunicati e quali tenuti nascosti. E così è arrivato alla conclusione più semplice: tutti. Ma i clienti, tra additivi, farine e zuccheri avrebbero capito? O avrebbero continuato a preferire il pistacchio di Bronte, la nocciola delle Langhe e il cioccolato del Venezuela?
Perché è sul luogo che si stabilisce l’immaginazione.
Senza retaggi e senza contorsioni. Si crea un’apparenza, si dà una forma, si torna indietro nel tempo creando dei collegamenti: il pistacchio che cresce nelle sciare raffreddate, le cabossidi del cacao che pendono dai rami con colori accesi, la vaniglia al sole delle spiagge tahitiane, il latte d’alpeggio. E sapere la provenienza, la certificazione, la denominazione ci dà un senso di progresso e un’aria di familiarità.
E così nascono sempre più menù devastati dai nomi, dalle facce, dalle foto, guide che celebrano ristoranti originari alla ricerca della filiera, portando al rincoglionimento l’italiano a cui non è rimasto altro…
Ma perché riportiamo solo l’elemento del solluchero?
Se io prendo una pizza ai funghi e tu mi scrivi porcini di Borgotaro e pomodoro San Marzano, ti stai definendo in maniera interessata e poco onesta. Definiscimi la farina, l’olio, l’acqua, il sale, il basilico ecc… Perché non scrivi che usi il lievito di birra Lievitalia? O gli spaghetti De Cecco anche se hai una stella Michelin? O l’acqua della fogna di Cavenago?O che il lime l’hai comprato alla Metro?
Perché siamo in Italia e l’origine, il racconto e il sogno del cibo devono anticipare qualunque salivazione… Ma è un’etica che si dipinge da etica, è un etica provveduta e assolutamente finalizzata… anche perché l’etica studia il comportamento umano non ne è la realizzazione… a meno di non diventare normativa… ma è etica un’etica normativa o impositiva? Non credo che la risposta sia compito dei pizzaioli… così mi feremerei ad una buona dose di paraculaggine e lascerei da parte etiche, morali, kilometri giusti e quant’altro… perché il kilometro giusto della mozzarella è più giusto di quello del lievito di birra? Eccc….ecc…ec…e…!!! ciù!
In soccorso non mi viene Kant ma Pierre Hermé…
Ad uno dei più importanti pasticcieri al mondo non interessa parlare della qualità della propria pasticceria perché è già implicita nel fatto che il dolce è un dolce di Pierre Hermé. Non deve essere una dichiarazione d’intenti ma un postulato dato per assodato. E non gli interessa neppure scervellarsi per imporre una comunicazione su provenienze e origini. È una lotta tra poveri. La provenienza, anch’essa, è implicita nella qualità di un dolce che è di Pierre Hermé. Ma in queste frasi c’è qualcosa in più, c’è qualcosa che va oltre. C’è il suo essere francese… ed è fondamentale per la comprensione.
A lui (loro) non interessa parlare di luoghi, di provenienze e di genesi, interessa parlare di qualità del prodotto, di realizzazione finale. Non ci sono Bronte, Calizzano, la Val Senales o Savigliano sul Rubicone, o meglio, ci sono ma non sono così fondanti. E non è una questione di tradimento delle radici, è questione di serietà. L’ipocrisia di nascondersi dietro un albero di pistacchi, cresciuto su terreni lavici, schermisce dalle critiche preventive e mette già le mani avanti. È un esautorarsi, richiamando sentori lontani, apotropaici, retaggi atavici. Smettiamola con questi menù stucchevoli, con questo continuo richiamo al prodotto tipico che ci conviene di più mostrare. Mettiamo in bella luce i volti delle persone. Non nascondiamoci. Gli artigiani non sono un’egida e nemmeno un bagno curativo. Il pistacchio di Bronte non è tutto uguale e nemmeno la nocciola delle Langhe. Non basta più questo. E non bastan più neanche i volti degli artigiani. Serve il proprio volto per non confonderlo con quello di qualcun altro Serve una buona pizza, una buon panettone, un buon biscotto e un buon formaggio prima di qualunque farina, di qualunque burro e di qualunque latte. Gli ingredienti o si gettano nel mucchio tutti subito, senza PRECLUSIONE verso nessuno, oppure si aspetta la soddisfazione. Prevenirla non è provenirla!!!!