La storia delle caprerie italiane… Berto Vassena

Valmadrera. Un paesino sul lago di Lecco come tanti altri. Il capoluogo è indifferente e sparso. I porticcioli definiscono una via di fuga che le anzianità collegiali e le colonie estive continuano a rimandare. Le piazze e le vie sono tutte uguali. Ci sono delle rarità, in mezzo a case basse con colori indifferenti e piazzette comunali. Al di là di una di queste, dietro un paio di attivisti che vorrebbero ridicolizzare i rifiuti, si nasconde Villa Gavazzi. Non credendoci, vengo attratto da una cacofonia canina e verso un senso d’abbandono. Due anziani mi vengono incontro. La custodia è un’arte troppo vituperata. Le fortune del giardiniere sono quelle incommensurabili dello spettatore. Villa Gavazzi per Berto Vassena e sua moglie, ex giardinieri dei proprietari, è stata ed è una fruibilità senza noie.

Alberi secolari e una straordinaria filanda alle spalle di un giardino d’inverno. Qui si lavorava la seta… la rivoluzione industriale è percepibile nei colori e nell’archeologia. Una pace che si porta dietro la stalla, almeno nell’immaginazione. Berto è stato un grande allevatore, uno dei primi, forse il primo, ad importare la camosciata dalla Francia (perchè una giovane svizzera, infatuata del suo amico veterinario, li aveva dissuasi da comprare nei Cantoni e li aveva convinti ad andare oltralpe, dove i prezzi erano di molto inferiori…), sicuramente uno dei selezionatori della razza che ha avuto più epigoni e più ammiratori. Gli allevamenti del nord Italia sono un labirinto di retaggi e di coincidenze. Le richieste arrivavano da ogni dove. Motivo: longevità e produttività.

Da Gualberto Martini a Chiara Onida, il presente di Berto è una traccia costante in stalle, formaggi e strutturazioni. Oggi le capre sono rimaste cinque con un becco. Lui si occupa dell’allevamento, la moglie della caseificazione. I figli, malgrado loro, dopo aver contratto un’allergia al pelo di capra, hanno dovuto smettere qualunque attività agricola. Così sono rimaste una stalla e una sala di produzione, buie, molto lontane dalla vendita e assolutamente inadatte all’epopea della contemporaneità.

I formaggi prodotti, oltre una mitologica crosta lavata, che emana inconfondibili e pronunciati olezzi, deposta su di un asse al di sopra di un pavimento letteralmente mangiato dal siero, sono due: un caprino senza sale e un caprino affinato col pepe. Dieci litri di latte al giorno e nessuna vendita, eccezion fatta per una bottega di Lecco che pretende quei formaggi e che non gli permette di andare in pensione. Carmelina, la moglie di Berto, ha la stanchezza dello stupore, ma nessuna velleità di insegnamento o di priorità. Anche quando i caprai della zona sono scesi dalle loro stalle per farsi cagliare il latte o per imparare l’acidificazione, lei è sempre stata dalla parte osservante. Il caprino senza sale è l’espressione massima del latte di capra e della vecchiaia. Nessun ritorno e nessuna contro-indicazione. Solo il lavoro di Berto, l’alimentazione messa a posto negli anni ’80 con l’esimio Michele Corti, ora emblema dei ribelli del Bitto, e nient’altro. L’aggiunta di pepe, su qualcosa di troppo fresco, dove la stagionatura, per vari motivi, non è contemplata (probabilmente solo desiderata da Berto…), non rilascia quella particolarità che l’affinamento avrebbe trovato nella mantecatura e nella proteolisi. Qui è solo una tassa per arrivare allo straordinario nitore del latte.

Berto, nella libertà da assenza di capre, ha costruito un laboratorio di falegnameria dove costruisce oggetti e tavoli…

La dilatazione dei tempi, però, è irriducibile a uno scritto o a un girato, è quella noia poco interessante, irriportabile tra le parole, perchè non crea nessuna illusione. Così decido di andare via, abbandonando la loro quotidianità e il loro passato, convinto che né Berto e né Carmelina avranno gli onori che gli spettano. Tutto questo è avvenuto in un’epoca dove il cibo era un corredo, dove le possibilità “da che eran di pochi a che son diventate di tutti”, è avvenuto in un tempo dove la “pornificazione” del cibo era un dialetto parlato senza denti o quel prodotto talmente freak da disturbare l’altare dell’eccezione. C’erano facce di produttori distanti, senza comunicazione, in bianco e nero, c’erano orde di allevatori genuini che spegnevano la luce alle nove, c’erano giornalisti engagè con la glocalizzazione in stato embrionale, c’erano… e poi c’era Prometeo Vassena, colui che ha rubato il caglio ai francesi…

 

BERTO VASSENA

DIETRO VILLA GAVAZZI

VALMADRERA (LC)

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *