Colline sopra Alba, dove l’icona lascia spazio al decadimento. Le nocciole si trasformano in vigneti per ritornare selvatico addomesticato. Nemmeno la perfezione è preclusa. Perché qui intorno, al di là delle solite costruzioni irrispettose e assolutamente fuori contesto, le curve appaiono e nascondono con una continuità senza requie. Questo avamposto delle Langhe, ancora distanti nelle chiacchiere, è un luogo rilassante di una deferenza inversa. Qui c’è sempre qualcuno che è arrivato prima, che ha aperto la strada, che ha annusato la polvere tra La Morra e Barolo, che ha venduto agli americani, che ha svenduto agli americani, che ha innovato senza muoversi da casa e che ti guarderà con sospetto qualunque cosa tu dica, riguardo qualunque cosa tu sappia o non sappia. Ecco, Claudio Rosso non è uno di questi, nonostante la comunione del percorso sia quella di molti.
Famiglia di viticoltori: Gigi, il papà, enologo di tradizione, tanto bravo in vigna quanto vacillante nella comunicazione, Claudio, enologo anch’esso, Maurizio, fratello di Claudio, scrittore prestato alla vigna, vista la crisi delle parole. Coesione per anni e conto terzismo un filo spericolato. Così l’analisi dell’aceto è diventata la frequentazione dei grandi vecchi. Ognuno si produceva il proprio e lo regalava ai clienti più affezionati. Un modo per imprimere qualità nella quotidianità. Claudio ha vissuto tutto ciò e ha deciso che su quella strada avrebbe ricostruito una tradizione abbandonata al lassismo, soprattutto da parte di un mondo enologico a comando che alla parola aceto ha cominciato ad abbozzare un ghigno di dileggio.
-Così l’Asì–
Claudio ne è diventato un cultore e uno dei migliori produttori. Perché per fare buon aceto bisogna partire da un buon vino. La fermentazione e la putrefazione sono le anime di un prodotto che tramanda una trasformazione. E così, lasciando da parte il monopolio industriale e l’incoscienza balsamica che condisce tutto di dolciastro, ha ripreso il metodo di Orleans, buon esito di una profonda percezione acetica lontana oltre settecento anni. Botticelle “madri” scolme, così da facilitare il contatto con l’aria, mantenute al caldo e riempite di vino per i 2/3. L’acetificazione avviene lentamente e nel tempo. Il vino cambia botte, riempie e svuota. L’aceto si preleva e si sostituisce col vino. Buono. 13°-14° gradi alcol. Problema. L’aceto artigianale è definito da un’acidità totale non inferiore a 6 grammi per cento millilitri e un residuo massimo in alcol di 1,5% vol. Come si fa senza diluire con acqua (pratica usata abbondantemente nell’industria e non dichiarata in etichetta) a non presentare un prodotto troppo acido e assolutamente improponibile? L’industria parte da vini sui 10 gradi e scende a 6 con l’acqua, in autoclave e in poco tempo. Ma l’artigiano che usa le botti come può arrivare a 6 gradi con 1,5 di residuo alcolico? Normalmente i gradi residui sono maggiori, la sicurezza alimentare meno stabile e la legislazione meno legiferata. E così era in passato. Non ci sono garanzie di riuscita e l’aceto artigianale è sempre più un punto di domanda. Per ora, solo in Italia, c’è stato quantomeno il riconoscimento degli aceti artigianali a lunga fermentazione che possono avere fino a 4 gradi alcolici. Il futuro non è roseo. Il presente, però, è un florilegio di aceti degni di tal nome.
- Aceto di Moscato: vinificato in bianco in acciaio, per non perdere il colore a contatto con il legno, morbido e aromatico.
- Aceto balsamico di mosto cotto di Moscato: un condimento invecchiato tre anni in batteria, per non disperdere il senso dell’uva di origine. Una versione agra langarola del suadente balsamico.
- Aceto di Nebbiolo e Barbera: quotidiano, aspro, particolarmente leggero, penetrante al di là di tutto.
- Aceto aromatizzato alle erbe: un bel bouquet in cui arriva il rosmarino e sparisce un po’ l’agro. Compiaciuto nel suo sbilanciamento.
- Aceto di Barolo: corposo, pieno, costante nel gusto e nel retrogusto. È un agretto perfetto. Realisticamente crudo, è un testo prima che un contesto.
Claudio è una persona invischiata che non può fare a meno di ammettere ciò che pensa. Senza ritrosie e senza paura della ritorsione. In terre dove l’iconoclastia non è mai stata un fatto ma sempre un pretesto per vendere meglio e di più. Così il confine del guadagno è quello del diversivo. Aceto e vino non hanno l’accordo nonostante il piacere. Perché emanare è sempre stato più importante che ascoltare. E così sì è arrivati ad un tempo senza tempo, dove fare un buon aceto è un disinteresse localizzato all’ombra di un asservimento industriale per duopoli indissolubili. Chi fa realmente aceto artigianale in Italia? E che cos’è l’aceto artigianale? Esiste o è solo un’utopia per pochi reietti…? State connessi…
ASI’ – AZIENDA AGRICOLA CLAUDIO ROSSO
LOCALITA’ SANTA ROSALIA 26/BIS
ALBA (CN)