Castronovo di Sicilia. Propaggini dei Monti Sicani, appena fuori la Palermo-Agrigento. In quella via dei formaggi che è dossi naturali, avvallamenti, asfalto disintegrato, sterrato ma soprattutto aziende agricole segnalate ma assolutamente irraggiungibili, in quella speranza mista a preghiera che non delude mai. Questa è la Sicilia vera di Tomasi di Lampedusa, quella dei campi di grano e quella degli ettari dimenticati, dove il giallo è sublimazione di povertà e attesa, e i volti sono ancora sepolti sotto anni di cenere, polvere ma soprattutto indifferenza. Qui, i nomi e i cognomi si susseguono, ma è come se fossero poco importanti e poco propizi. Qui, sono i formaggi a farla da padrone e a sentenziare. Bestie scarne, pascoli atterriti e coagulatori dal pollice scarico e dalla cultura areata. Per uscire dall’anonimato: o attraverso un nome o attraverso un’invenzione incomprensibile al dirimpettaio. Qui, Salvatore Passalacqua ha messo a punto la sua tuma persa.
Nonno autarchico e gentile imprenditore agricolo, padre panificatore e lui casaro per scelta. Oltre venticinque anni fa, in quella Sicilia che era vacche e paesi sbiaditi (quelli a dire il vero ci sono ancora oggi…) nelle segnaletiche stradali, lui decise di fare l’allevatore e di provare a trasformare il proprio latte. Ma la solitudine l’ha colto all’improvviso. L’aiuto era sempre una speranza, così ha canonizzato la sua scelta: o allevatore o casaro.
La seconda aveva più grazia e dava più tempo per pensare. Così ha iniziato a prendere il latte, a recuperare ricette, a diventare presidiato, a comunicare con i pezzi grossi, a collaborare con il professor Rubino e con le università, ma soprattutto a distaccarsi da quella tradizione da mantella consumata e da giacca foderata che degli allevatori ha sempre postulato distanza e difficoltà di comprensione. Salvatore Passalacqua è un casaro contemporaneo senza peli sulla lingua.
Lo stesso professor Rubino, di stanza a Torino negli anni ’90, trovò impolverato, tra gli scaffali e i processi di produzione dei formaggi siciliani, quello della tuma persa che nessuno conosceva. Aveva una struttura rara, codificata in un libro degli anni ’30 di Alberto Romolotti e senza una precisazione regionale. I Monti Sicani sono stati la casualità e Salvatore Passalacqua il tramite per riportarla in vita. Latte di vacca termizzato intero (e qui Salvatore mi dà un’interpretazione della scrematura come quella di un indebito appropriamento da parte del contadino nei confronti del padrone di una parte del grasso per scopi privati… la nascita del formaggio semi-grasso, per lui, è più una necessità che un reale desiderio…), caglio in pasta di capretto, pasta pressata cruda, crosta giallo vivo che diventa scura grazie alla cappatura fatta con olio e pepe. La caseificazione non è importante come la stagionatura. La tuma, una volta messa in forma, non viene toccata per circa una settimana, poi viene lavata e lasciata di nuovo ad un riposo fermentativo per altri dieci giorni. Ecco perché persa. Solo dopo tre settimane è pronta per essere ripulita dalle muffe e salata. La pasta si sgrana, è tenera, i sentori di latte sono un filo coperti, niente sapidità e nemmeno amarezza, stagionatura sugli otto mesi, occhiatura quasi nulla e un particolarissimo retrogusto, qualcosa di unico, qualcosa che unisce la sapidità della muffa, un filo di frollatura selvatica ma soprattutto un equilibrio che non è quasi mai di queste terre.
Il fior di Garofalo, che nasce Garofalo per il nome della contrada, che diventa Sicano per motivi burocratici e piazzate all’ultimo momento di mezze maniche locali tra l’accidia e l’invidia, e che ritorna Garofalo nella sola azienda Passalacqua. Salvatore ha provato ad infondere i pascoli e le strutture casearie dell’arco alpino in una pasta molle che in Sicilia produce quasi solo lui, con sommo stupore di tutti quelli che sono ancora lì ad inseguire “le tume che si sono perse”, a copiare, ad inventare leggende sulle cadute dei formaggi e a comprare prodotti ricercati in dedali di bottegai palermitani che la puzza di formaggio sotto il naso non se la sono mai tolta per potersi vestire di crotti, tome d’alpeggio e caprini erborinati. Ci sono quelli che ancora elemosinano un po’ di attenzione e di tuma persa, perché il Fior di Garofalo è un grasso d’alpe, più simile al macagn che a qualunque altro formaggio siciliano. Burro, pascolo e un filo di acidità.
La possibilità di fare il formaggio con il proprio latte gli fa ancora brillare gli occhi. Ma la mitologia del progresso e dei conti mai pagati è difficile che faccia fare un passo indietro in questa Sicilia dove il retrogrado è ancora la figura dominante. Salvatore ha provato a scrivere una storia diversa, con tutti i limiti della modernità, dei tini in acciaio, del latte termizzato e dei quintali di latte lavorato, una storia che non si limiti alla pelle bruciata e che provi a portare cultura e scientificità in processi e in fotografie sbiadite che ancora adesso hanno una sconcertante attualità in stamberghe di paglia e dita sporche. Così si perde un po’ di poesia e si perde un po’ di abbandono, ma la Sicilia non ha più bisogno di esteti e perdigiorno, ha bisogno di persone in grado di mandare a quel paese Slow Food e i pizzi da pagare… ma legalmente riconosciuti da associazioni sempre un passo indietro. Questa è una storia di ingerenze, invidie, mani in pasta, creatività, vecchi funzionari locali, carabinieri senza rispetto ma soprattutto di una Sicilia con un futuro…
CASEARIA PASSALACQUA
CONTRADA BARONAGGIO
CASTRONOVO DI SICILIA (PA)