Alba è il luogo giusto per fare tutto. La gastronomia qui non è un’eccellenza casuale. In mezzo alla sofisticazione di chi è arrivato dopo e si è voluto prendere il giochino, in mezzo a quelle diciotto panetterie per poco più di trentamila abitanti, ci sono motivazioni difficili da tenere segrete. Ad un massimo di un’ora di macchina si ha accesso a tutto, dall’uva all’olivo, dai formaggi d’alpeggio alle nocciole, dalla frutta agli allevamenti di Piemontese fino al tartufo. Qui la trasformazione deve essere una dichiarazione d’intenti e di protezione, un modo per evitare l’estemporaneità della cucina contemporanea, perdendo la tradizione per ritrovarla dietro l’angolo, con un tovagliato d’accatto e un’idea di senso da ricercare in un’anzianità gloriosa e in ricette che nella rivisitazione già perdevano il legittimo. Alba è un luogo dissoluto e dissipato, di una bellezza tirata fuori, dove il cibo è diventato più occhio che pancia e dove il giudizio rimane sempre legato ad una territorialità industriale e partigiana. Qui continua ad evolversi una storia silenziosa e irriverente, dove la cortesia è diventata una sottile forma di conservazione. E così quando non trovi manco un’insegna ad attenderti, in una periferia dove la Ferrero ha destato le coscienze all’azione, pensi di essere nel posto giusto al momento giusto.
Il “Laboratorio di resistenza dolciaria” è un luogo senza secondi fini, rimane tutto nel nome… una promessa realizzata. Fratello e sorella, Federico e Maria Cristina, a metà anni ’90, hanno deciso di cambiare la loro vita, prendendo la pasticceria come missione di un viaggio verso l’origine. Ed è lì che si son scontrati con la dura realtà delle copie conformi, di una pasticceria standardizzata, di semi-lavorati e di pasticceri devoti alla mitologia della consulenza. Così, sul solco tracciato da Corrado Assenza (su cui non esprimo giudizi di valore ma riporto la storicità alla massa critica dei giudici gastronomici con il formidabile sempre nel taschino), padre putativo e organolettico, Federico ha provato a ricreare una pasticceria che avesse sì Careme e Vatel alle basi ma che si liberasse del militaresco contemporaneo, dove il grammo ardito è l’unico dio creativo. Giusto o sbagliato che sia, ha preferito menti libere e vuote, senza principi né tecnici né morali. Si è affidato inizialmente ad un anziano pasticcere di Alba, della vecchia scuola del lavoro sodo e del poco sole, e ha cominciato con anacronistici strumenti, associati a sofisticati impianti contemporanei. Maria Cristina ha dato alla pasticceria quel tocco di bottega di quartiere necessaria per una scelta polifonica.
Così si è attorniati da caramelle e cioccolati, si sentono le nocciole, si scrutano gli albesi, le paste frolle e le ricerche di Federico, che ha preferito l’automobile ai rappresentanti del prodotto sempre presente. Sono arrivate le nocciole di un coricoltore di Mango, le castagne di Calizzano, le robiole, i cacao boliviani, i baroli senza sofisticazioni, le uova di piccoli allevatori, le farine Marino, il burro di Isigny, le pesche tardive di Canale e tutto quello che l’immaginazione può portare dentro, come accostamenti e come origini. La Sacher si ammorbidisce con la cottura al vapore e diventa di Langa con le nocciole e la sparizione dell’albicocca, la torta di nocciola ha una punta di rum che confonde, mentre i biscotti alle castagne essiccate sono meravigliosi. Superata la ritrosia alla novità e l’abitudine al classico, la bottega di Federico e di Cristina è prima di tutto un luogo di spontaneità, dove anche i dipendenti devono essere pronti a crearsi o a ricrearsi.
Nel mondo della pasticceria la mimesi è dietro l’angolo, le ricette sono scritte, i grandi pasticcieri hanno copiato una copia rendendola originale, la firma autoritaria è sempre sotto schiaffo del giudizio, e a Federico interessa poco sia la stravaganza sia la conformità, la sua deve essere un’esperienza semplice in cui i gusti siano a posto e siano all’origine di un palato che non deve essere confuso e necessariamente non deve essere troppo diffuso. Non siamo tornati né al tempo dei metate né a quello dei mattarelli e neppure a quell’espressione espressa della pasticceria da ristorante che vede la vetrina come il demone da scacciare e i soldi nel portafoglio come l’unica soluzione. Quella di Cristina e Federico non è una pasticceria elitaria e nemmeno una pasticceria povera, la rivoluzione gustativa e quella economica sono sempre alla base di una tradizione che deve rimanere senza infingimenti. Lì è il luogo dell’umano, del rapporto con il cliente e del desiderio di periferia, uno dei pochi luoghi dove ancora, soprattutto se senza insegna, si può creare una storia…
LABORATORIO DI RESISTENZA DOLCIARIA
VIA P. FERRERO 11
ALBA (CN)