Lagorai: un malgaro iconoclasta… Marco Pompermaier

LAGORAI

Comune di Torcegno. Malga Casapinello. Lagorai. Un nome che incute timore, lontano dalle rotte turistiche, sospeso tra la passeggiata del fine settimana e una vista senza requie. Non è un luogo remoto ma nascosto. Chi lo conosce se lo tiene per sé, perché la bellezza di questa montagna senza contingenze ti richiama verso l’infinito e verso la paura. Di guardare di sotto, di aspettare che la notte diventi notte e di guardare quegli animali al pascolo contendersi il possesso della montagna. Perché qui si fa formaggio da centinaia di anni e il sistema malghe è uno dei meglio strutturati dell’arco alpino. Si possono fare i maggenghi, le erbe sono in abbondanza e Valsugana e Val di Fiemme tengono per sé tutte le contraddizioni dell’estate in quota. Questa è una montagna facile che ha ancora il vezzo dell’illusione. Privati, clero, feudi e comuni. Qui la faccia dei malgari è sempre passata da scelte altrui. Il possesso è un fievole affitto da condividere in sussistenza, portando su le vacche degli alpeggiatori in contumacia.

Questi luoghi cambiano annualmente. La malga di un anno fa non era quella di oggi. Per arrivare al formaggio, bisogna seguire l’uomo. E Marco Pompermaier è uno di quei nomi che in valle richiamano subito l’attenzione. Come lo fa lui il formaggio, in pochi, forse nessuno. Ma io lo trovo casualmente a Malga Casapinello sulla scia di un professore di chimica. Poco più di cinquant’anni, un metro e novanta, muscoli asciutti, barba da predestinato e due occhi cerulei che trafiggono.

Dalla prima frase, capisco che qui il formaggio si fa ancora con la leggerezza dell’ironia.

Marco condivide la malga con due ragazze poco più che ventenni che si occupano della parte di ristoro e pernottamento. Qui la gente arriva, passa e si ferma. Chiede di tutto. Pensa di essere al mercatino del paese. Vuole i formaggi speziati, quelli freschi, quelli molli, quelli stagionati, si permette anche di assaggiare. E così Marco serve tutti, provando comunque a ritagliarsi la sua strada. Lasciando da parte affinamenti e lunghe stagionature, concentrandosi su quello che può generare sussistenza. Perché il formaggio si fa solo d’estate e l’inverno lo superano pochissime forme. Una dei primi di ottobre del 2014 arriva alla mia bocca. È un formaggio del Lagorai sui generis. Latte intero di due mungiture, grassezza ben in evidenza, tara come d’uopo per un formaggio rispettato ancora dai vecchi, colore giallo senapato e dei profumi fantastici di tempo passato nei luoghi giusti. Nessuna elasticità, molto rotondo in bocca, un prodotto incredibile. Sapori che cambiano ad ogni assaggio e ortodossia dei caci realizzati in quelle valli messa repentinamente in discussione. Questa è una zona di formaggi parzialmente scremati, di burro, di Tosella e di brevi stagionature. E così’ una forma dell’inizio dell’alpeggio 2015 segue perfettamente i canoni. Assomiglia incredibilmente ad un Silter della Valcamonica. Pasta semi-cotta, due mungiture (una sola scremata), fermenti auto-prodotti e pochi mesi su legno. Qualche giorno in salamoia e crosta perfettamente ingiallita. La casera di stagionatura è perfetta. Difficilmente ho trovato un caseificio con un nitore del genere in pianura, figurarsi in montagna. Il formaggio è molto diverso tra una forma e l’altra. L’elastico e l’acidità han bisogno del tempo giusto ma non del troppo. E così esce alla perfezione il latte delle sue brune, delle grigie e delle pezzate. Perché qui c’è un florilegio di razze e anche qualche capra dei Mocheni che fa capolino per qualche presamica caprina sempre più richiesta.

Marco è una persona libera, vive l’alpeggio come una forma di quotidianità che non può essere rivelata fino in fondo. E anche parlandoci, c’è sempre qualcosa che va oltre, che non arriva, che rimane nascosta dietro il sarcasmo e dietro quella filosofia che nella reiterazione ereditaria vede un limite più che una conservazione. E così, se a suo figlio non interesserà fare il formaggio e allevare bovini, sarà libero di disegnarsi una vita meno italiana e più concorrenziale. Perché qui è in discussione l’umano, quello che prevede il paesaggio del turista e quello che le notti son talmente limpide da preferire le brume della privazione. Qui di giorno è tutto molto preciso, definito, conservatore. C’è una montagna candida, quasi perfetta. E Marco a suo modo è un vero rivoluzionario, perché sta provando ad affondare il proprio linguaggio in un linguaggio che non lo rappresenta e che lo mistificherà sempre. E infatti lui non è già più. Tra qualche mese o tra qualche anno sarà su un’altra malga a fare un formaggio straordinario con un pascolo diverso e bestie diverse. Perché questo è il destino del casaro montano, quello che quando inizia a cuocere la cagliata nel rame, sente il tempo…

 

MALGA CASAPINELLO

VAL CAVE’

TORCEGNO (TN)

 

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