Le susine bianche e la sua poetessa… Marilù Monte

Monreale. Un nome evocativo, dispotico e contradditorio. Da una parte, la tradizione del pane – ormai in semi-marcescenza – e l’opulenza-maestosità del duomo, delle sue piazze e dei vicoli anteposti alla maniera del vassallaggio, dall’altra, gli acquapark accumula file, il lungo rettilineo inerziale e un poco apatico di Pioppo e l’immenso territorio che si sa da dove inizia ma non si sa che cosa nasconda e soprattutto chi nasconda. Il dominio visivo su Palermo, sulle sue conche e sui suoi litorali ha qualcosa che trancia la volontà conservativa verso il passato. Quello che c’è basta, il resto non può che essere estensione della vista e riposo sulle panchine…
Ma come in tutte le cose, c’è chi non si accontenta, rinnovando, da urbanizzata e scolarizzata ragazza della contemporaneità più comoda, la tradizione di un territorio e il sorriso di sua nonna. Quella che l’ha vezzeggiata Marilù (da Maria e non da Maria Luisa), la stessa che gli ha regalato quello sguardo interpellante, pervasivo ed estremamente pugnace sulle cose e sul mondo. Lei è tornata, insieme ai suoi genitori ed insieme alle estati passate lontano dal mare, senza sentirne l’esigenza ma accogliendo i profumi e i sapori di un retaggio e di un raccolto…

Marilù si mette a latere, lasciando il proscenio ad un prodotto, biasimato e sovraesposto, che ha bisogno di attenzione e di ricordi. Non lavora in biologico ma in integrato. Ha svariati ettari coltivati a susine bianche, susine nere e albicocche. Le prune di core (etimologia da ricercare nel legame con l’abbondanza e la generosità…) si diramano in un trivio di nomenclature e periodi di raccolta: sanacore (più affusolate e un filo acide), sanacore tardive (raccolte ad inizio agosto e probabilmente le meno interessanti per consistenze e dolcezza) e ariddi di core (più panciute e rotonde, gusto zuccherino ed eccezionale…). 

Queste ultime, intorno a fine agosto, vengono prese da Marilù e da sua madre e incartate in una tenue velina: una ad una, a mano, in una sorta di successione di Fibonacci, dove al tassello che marcisce nella stagionatura ne va sostituito uno uguale e conforme. Un lavoro presidiato da Slow Food e unico al mondo. Qualcosa che lascia la susina appassire nella bontà per non meno di due mesi.

La sua umiltà è una di quelle rare umiltà che, grazie alla suggestione del suo interloquire, non mi infastidisce, mettendo alle strette la mia pietà. Marilù chiede e ascolta. Non pontifica mai. Ha un’incredibile possibilità di stupore che mi lascia interdetto tra la mia ragione e il suo sentimento. Disserta con rigore ma senza protervia. Viene dal mondo universitario, recupera antiche varietà, studia la possibilità della Sicilia di non farsi schiacciare dall’ignoranza, coltiva, con suo marito, alcuni ettari di vite nella zona di Salaparuta, è un’esteta passionale della gallina siciliana, che sta cercando di recuperare (in agio fanciullesco nell’aia, per ora si accontenta delle livornesi e delle sue bianche uova…), ed è diventata (per volontà degli stessi ragazzi…) presidente di un’associazione (il cui nome mi è stato detto almeno quattro volte ma il mio psichiatra non è riuscito a rischiarare il buio del mio nulla mnemonico…) a cui sono stati affidati ventisette ettari, a vocazione cerealicola nella zona di Roccamena, confiscati alla mafia (la sua volontà è quella di pianificare una filiera cortissima, bypassando la molitura e passando direttamente ad una panificazione a lievitazione naturale…).
L’amore per la sua infanzia, per la sua adolescenza e per la sua terra, l’ha portata a Monreale a fare l’agricoltrice. Con suo padre, intento (almeno quando lo vedo io…) nella pulizia e nella scelta delle susine migliori, con sua madre (una signora Minù, siculamente orientata sul cibo, sulla sua tessitura, sulla sua preparazione e soprattutto su un’ospitalità a cui non puoi sottrarti…) e con un paio di ragazzi africani, ormai parte fondante della famiglia.
Un quadro di sicilianità epurata dalla noia e dal luogo comune. Uno di quei focolari che ti fanno mettere a tavola e dimenticare le complicazioni della quotidianità.

Contro il buio della non curanza, va a tentoni e piccoli passi. Ci prova con una marmellata fatta da Colle Vicario (veramente bravi…) ma Slow Food non approva a causa dell’utilizzo di pectina (ancorchè sia estratta direttamente dalla frutta…). 
Trova una piccola azienda nel nisseno che le inizia a produrre confetture. Mette il miele di sulla di Amodeo, regalando delle susine sciroppate un filo aspre ma piene al gusto. 
Si accorda con il consorzio del limone Interdonato e inizia una piccolissima produzione di una confettura metà susina e metà limone (fortunato me nell’assaggio). Coglie al volo le velleità di Valerio Onorato e mette a punto una marmellata con l’aggiunta di manna. Per sovrammercato, produce quella classica. Esaltazione massima del frutto e del suo autore…

Marilù è un vulcano d’improvvisazioni. Chiede consigli e tenta sempre la strada della miglioria. Ha un fondo di gentilezza maliarda (che non ho assolutamente idea da dove provenga…), che è quasi difficile salutarla. È come se un velo d’abbandono offuscasse quella mattinata. Marilù, a tinte pastello, trae garbo dalla terra, appropriandosene sotto forma di umanità. Ricca e materna…

MARILU’ MONTE
CONTRADA COZZO DEL PIGNO, 9
PIOPPO – MONREALE (PA)

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