Aosta. Pochi parcheggi, centro storico delimitato, irriguardosa presenza di bellezze naturali e di accenti apotropaici che tolgono la velleità di lamentarsi. Il patois locale è un’inflessione recuperata ma mai scomparsa, parlata ma mai imposta. Qui siamo in una di quelle zone di confine dove una Nazione diventa un’altra. Il limite come terra di mezzo tra soglia e confine. Qui l’Italia necessariamente diventa Francia. Senza complimenti e senza recisioni. Aosta è il luogo simbolo del passeggio e del passaggio. La gente corre e si allontana sulla strada per Pila o per la Valtournanche, rimane giusto il tempo di un negozio. Il resto è sguardo e nostalgia. Perché qui c’è una bellezza disillusa che non riesce a richiamare perché divertimento e relax sono concorrenti troppo ostici. Così chi rimane deve fare le cose seriamente, guardando al territorio e alla tradizione.
Stefano Lunardi è un agronomo che ha fatto l’agronomo, si è invischiato un po’ troppo dentro il burocratese regionale, ha visto le orecchie tappate dal cerume, non ha capito le logiche o se ci fosse una logica, si è trasferito moralmente in Val d’Ayas per valorizzare i prodotti a km zero ma soprattutto per portare comunicazione laddove erano rimasti solo folklore e rughe. E lì è sopraggiunta l’idea. Dopo aver mappato tutti i pascoli della valle, centimetro per centimetro e fiore per fiore, ne ha portato a casa una varietà aromatica sorprendente e un’espressione che dalla mitologia ritornava sull’alpe e su quell’unico prodotto in grado di esprimere la polimorfia dell’estate e della montagna: il formaggio.
Così, dopo averne assaggiati tanti, dopo essere stato fianco a fianco con professori universitari, malghesi e semplici appassionati, dopo aver scoperto una terza via per il mercato (quella senza imposizioni ma soprattutto con i nomi dei produttori bene in evidenza) che non fosse quella dell’allevatore e nemmeno quella del commerciante che si spaccia per affinatore con i semi di rosmarino in mano, ha deciso di aprire un suo locale in città dove dare risalto a quella regione che non è solo Fontina.
Un filo decentrata rispetto al più tipico dei passeggi domenicali, la bottega è lì da quasi un secolo, ha solo cambiato proprietario. Ha mantenuto una parte del nome, “La maison de la Fontina”, storica latteria di Aosta, accostando la sua dichiarazione d’intenti: ErbaVoglio e quasi solo quella. Così si è trovato una cantina d’affinamento straordinariamente incuneata verso il centro della terra. Tra umidità e assi in legno, il suo lavoro appariva come l’ultima propaggine del rispetto.
La stagionatura salvifica, senza ammennicoli contemporanei dietro cui nascondere latte di merda, pastorizzazioni e standardizzazione della forma, è diventata un percorso strenuamente legato alla collaborazione con gli allevatori, quelli che producono e gli stessi che devono tenere le proprie forme per le prime settimane. Solo lì ha deciso di stringere un paio di alleanze con un paio di casari con cui ha messo a punto due varianti della tipicità ormai estremizzata.
Una fontina con pressature e strutture differenti e una toma con la crosta che, dopo mesi di cantina, profuma ancora di polline. Solo alpeggio e solo un paio-tre di settimane di produzione. Le restanti devono rimanere del produttore. Così le forme sono centellinate e i ristoratori fanno a gara per accaparrarsele. Il motivo è di una semplicità priva di vinacce e peperoncino: c’è una sovrastruttura culturale sopra-natura fatta a modo e senza arroganza. Si apporta la sapienza del pascolo all’abitudine del pascolo. Il Renquefleur è una Fontina in miniatura, elastica ma cremosa, assolutamente masticabile e con dei profumi floreali che raggiungono l’apice dopo sei mesi. Solo fiori e niente mangimi. D’altronde cosa c’è in un nome?… in questo caso, tutto… la Toma dell’Ourty, due mesi passati in alpeggio e il resto in cantina ad Aosta, viene prodotta dalla famiglia Vuillermoz nella tradizione e nell’amarezza di un pascolo che ha bisogno di tempo per lasciar spazio a note più lattiche e ad un retrogusto estremamente dolce, in controtendenza con la consuetudine dell’empiricamente a caso…
La bellezza di Stefano sta nell’unicità dell’idea che è diventata progetto mancando sempre la sua statica dimensione di saccenteria e consapevolezza. Rimane sempre un passo indietro la chiacchiera, la critica, il complimento, l’affermazione ma soprattutto la sicumera. È un affinatore che vive ancora di sbagli e non di segreti reconditi da portarsi nella tomba per far sì che l’orticello del vicino rimanga sempre desolato. Tutti i formaggi hanno un nome, tutti gli animali un allevatore, dalle vacche alle capre, dalle cagliate lattiche a quelle meravigliose presamiche, con la pasta praticamente unghia, di raffinatissima pulizia al palato. Quando non si cerca né il misticismo né il mito dell’assoluto, capita ancora di stupirsi, di trovare cose non a posto e di farsi sorprendere dall’inaspettato…
ERBAVOGLIO
RUE MONSEIGNEUR DE SALES 14
AOSTA