Milano. Quel profumo di forni che non ho mai sentito, continuerò a non sentirlo. Quell’idea che, al di là dei tram, dei primi impieghi, della nascita delle multinazionali familiari, della nebbia che non aveva ancora visto il dilagare di costruzioni frangiflutti, ci fosse qualcosa di simile a un focolare, di una vetrina al di là della nevicata, di intimità portata a spasso tra i piedi e lo stress delle persone, non è mai passata dall’altro lato. Quello mio. Quello del tavolino, del dolce, della tradizione, di qualcosa di profondamente meneghino intriso nella possibilità di conoscenze, personalità importanti, baristi e un po’ di familiarità che non andava a guastare il tempo morto, la sigaretta o il cappuccino sorseggiato per ammazzare una delusione, una giornata storta o una soddisfazione privata. Milano aveva delle pasticcerie, aveva delle vetrine e aveva delle scuole. Alemagna e Motta incantavano agli angoli delle strade. Portavano fuori quell’estetica impossibile da ricercare nelle case, quella tecnica ammaliante da raffinati decoratori che spalancava lentamente bocche ed occhi. Milano era un luogo di pasticcerie e non di pasticceri. Il narcisismo contemporaneo era una schiera di lievitisti e credenzieri senza la velleità dell’incontro, della mostrazione e del culto della personalità. Quello è arrivato con il tempo e con le università. Mentre Milano si affievoliva in insegne storiche, cambi repentini di proprietà e un dolce che non aveva più nulla di sincero. Il confenzionamento e la vetrinistica sono rimasti ai tempi della Milano da bere, marchi come Caffarel o Horvath sono ancora in bella mostra, le ritualità lontane e ormai imposte, in una borghesia sempre più pruriginosa, di aperitivi, colazioni o tè conviviali sono ancora lì a dimostrare luoghi imprenditoriali e sempre meno artigianali.
Eppure, pochi anni fa, quando morì Franco Festorazzi, patron del Sant Ambroeus, l’epitome della pasticceria milanese, costosa e anacronistica, si alzarono egide a favore dei baroni del tempo che fu. Che classe! Un uomo per bene, serio. Un imprenditore edile che trasformò la pasticceria in un’operazione immobiliare. Non c’è veramente nulla da aggiungere.
La pasticceria milanese, almeno quella storica, è un continuo cambio d’abito e di padrone. I pasticceri non decidono più il proprio destino. Ecco l’inizio della fine.
SOGGETTIVITA’ SOVRANA
Partiamo dalle rarissime Note liete:
-Pasticceria Martesana, col duo Vincenzo Santoro e Davide Comaschi alla guida. Molto accademica, un filo pedissequa, rispettosa dell’eccellenza di materie prime e clientela. Peccato che la miglior pasticceria milanese, o una delle migliori, si trovi tra Melchiorre Gioia e la morte incivile… Il centro di Milano è spopolato, è il deserto di Atacama, i costi sono impossibili per una pasticceria e un laboratorio che sia nelle mani di un pasticcere e non di un imprenditore. Eppure là, d’oltralpe, i buchi di 20 metri quadri, con la coda di 50 metri in mezzo alla strada, potrebbero insegnare qualcosa. Il nostro essere iper-protettivi e il nostro essere “familiari” ci impediscono il distacco. E così il centro di Milano non accoglie e non condanna. Blandisce con Vigor Baking, Cukicream Cacao e Top Cream. E un turista è costretto a saltare dalla finestra…
… Note andanti…
-Ernst Knam: tralasciamo la sovraesposizione mediatica, insopportabilmente affettata. Lui è uno cazzuto, quanto meno come persona. Pochi peli sulla lingua e sicumera impudente. Per il resto è meglio il salato del dolce. Ottimo catering. Il cioccolato non è il suo mondo (arrossisco ma è così…) così come i lievitati. Meglio nelle improvvisazioni e nell’estetica. Pasticceria molto ricca, sia a livello gustativo che aromatico.
-Caminadella Dolci: due donne, un filo uterine, con una fascinazione francese, sia nella proposta che nel country chic del mobilio. Dolci contenuti, molto casalinghi… forse un po’ troppo. Una di quelle pasticcerie che si ergono a paladine delle torte come si facevano una volta……. Quando?
-Fontana & Fontana: ex filosofo prestato alla pasticceria. E qui bene. Lavora in un buco in una zona anti-convenzionale. Ha seguito Valrhona forse ponendosi poche domande. La pasta frolla è ben fatta. Il resto è da rivedere. Ma la leggerezza è dalla sua parte…
-Sugar Tree: una venezuelana viennese a Milano. Non c’entra nulla. E infatti se ne è andata. Lasciando un buco… nel muro… la pasticceria era simpatica, quanto meno poco spocchiosa e senza manierismi d’antica grazia… adesso gli metteranno dentro un bel negozio di sigarette elettroniche…
-La Brioschina: né carne né pesce. Un po’ ristorante, un po’ gelateria, un po’ pasticceria e un po’ panificio. Un po’ poco di tutto. Però almeno un filo di raffinatezza sincera…
-Mac Mahon: Giovanni e Andrea Rampinelli. Lievitista con trascorsi da Alemagna il primo, giovane rampante un filo demodè il secondo. Al primo impatto buona, al secondo e al terzo un filo in calando. Soprattutto nel pezzo forte: il panettone. Offerta classicissima. Bel laboratorio. Velleità cioccolatiere da rimettere nel taschino…
TO BE CONTINUED…
Ottimo come sempre.
Che mi dici della pasticceria Marchesi?
Poi urge tour dell’assai triste panorama dei panificatori milanesi…