Tolto il fascino delle prime volte, il ridimensionamento di una città si vede dal tempo speso a non fare altro che vagabondare, non stupirsi più e rimanere attratti dal silenzio e dalla decadenza. E nonostante il clima aiuti a confondere, sbagliare strada è pressoché impossibile. Parigi è una certezza di zainetti, turisti sepolti, guide illuminate e occhi persi a rimirare. Almeno negli arrondissement più pertinenti alla Senna, quelli che hanno creato mitologie, che hanno visto lacrime, marciapiedi scalfiti, corse ininterrotte, proteste senza necrosi, gli stessi che sono stati ribelli e che sono diventati borghesi… perché Parigi è una città di straordinari ed enormi luoghi comuni, dove lo scarto è sempre una parola non detta. E così trovi psicanalisti italiani e lacaniani, registi con la macchina di scorta, produttori di aglio nero in bavero e redingote, suonatori di pianoforte dodicenni, poveri senza soluzione di continuità, ricchi dalle finestre luminose e sempre aperte, design decadente e prezzi che non hanno eguali perché il fascino non ha eguali. E qui si paga ancora il tempo per far sì che il ricordo, al di là dell’oggetto comprato e della baguette da mettere sotto l’ascella, sia un affastellarsi di presenti brevi che diventano storie condivise e racconti di qualcosa che non avrà mai comparazione. E così tirarsi fuori, provando a prendere il dolce come forma di corredo, può essere un buon modo per definire Parigi, senza dubbio, la città più succulenta del globo. Perché lo zucchero è sempre lo zucchero. Almeno nell’immaginazione e nella costruzione.
E Saint Germain des Pres è quel centro raffinato dove le boutique hanno smesso di gridare, i mercati si sono richiusi e i boulevard si sono assottigliati in vicoli stretti dalle case cadenti. Questa è la Parigi che tutti amano e che tutti invidiano, quella che vende il suo status ad un prezzo che non abbassa di un centesimo le sue pretese. Lì in mezzo, i grandi pasticcieri parigini si sono trovati, in un fazzoletto di negozi in ripetizione, e hanno deciso che il dolce dovesse trovarsi a metà strada tra il posizionamento, l’estetica e la trovata. Cosicché la pasticceria francese potesse mantenere intatta quell’egemonia dolce per cui l’assaggio è solo l’ultima delle componenti.
Lo zucchero e la conservazione rimangono e rimarranno, nonostante le tiepide rivoluzioni dei Genin di questo mondo, la base di dolci estetizzanti e perfetti, a lunga durata e assolutamente costruiti. Struttura e ripetibilità. Questi i mantra. E così nell’idiosincrasia verso la struttura all’italiana (laboratorio + bottega), la produzione viene decentrata e i negozi, tra il piccolo e il minuscolo, sorgono nei punti giusti per i momenti giusti, senza biasimo e senza paura della concorrenza, per cogliere preparati turisti, parigini e lavoratori, in quella dialettica torta/monoporzione che nella sua Patisserie des Reves, Philippe Conticini mette a tema in maniera sublime. Bancone centrale, campane trasparenti e dolci che si frammentano tra monoporzioni e torte vere e proprie. Un Mont Blanc da fare invidia ad Angelina, strutture, conservazione, profumi, pate sucrée friabilissima, meringa alla vaniglia, mascarponi, marroni e castagne a contenere. Sublime così come la tarte a l’orange (rivisitazione della classica au citron), perfetto bilanciamento con la vaniglia, ingrediente connaturato con l’alta pasticceria e quasi sbiadito dalla ripetizione scolastica di ritorno dall’alpe. A livello il Pierre Hermè fuori dalle contraddizioni dei suoi macaron. In quelle sablée eteree, nel mascarpone lombardo vero ingrediente chiave di molte pasticcerie, in quelle Tahiti eccessive, in quel croissant grasso e untuoso e in quella straordinaria sfoglia strutturata con mandorla, rosa e composta di lamponi.
Qui le eccezioni sono le classiche regole: Sadaharu Aoki piatto e autoreferenziale. La sua linea sul tè matcha mi ha coinvolto come una nottata con Luciano Onder, la sua tarte au citron vert invece era particolarmente spiccata, quasi estrema. Estetiche giapponesi, monoporzioni più piccole e conseguentemente meno care, madeleine raffinate e qualcosa da nascondere. Sensazioni… ma d’altronde la pasticceria è sensazione. Michalak sfrutta la popolarità con trompe-la-bouche micidiali, Paris Brest invasettate e Religieuse al caramello salato troppo salato, prezzi mortiferi, pasticceria allegra, estetica sempre in forma e gusti piatti. La sorpresa è Gerard Mulot che, nonostante manchi il rigore dell’armonia, trova il calore del traiteur, di quella gastronomia-pasticceria quasi meridionale in cui contrasti croccanti, mirtilli e lamponi, pane di campagna a lievito madre e aspic vanno tranquillamente a braccetto.
Ma tutto deve avere una fine e la mia ha un nome, un volto e un luogo: le due pasticcerie di Jacques Genin.
Osannato dai salivanti come il guru della pasticceria espressa, come colui che si è messo nel taschino Pierre Hermé e tutta la pasticceria francese da conservazione e da esportazione, colui che arriva dai ristoranti, ha viaggiato mari e monti e addirittura si è spinto fino a Pantelleria per andar per capperi. La succursale, nella traversa di Rue du Bac, tra Claire Damon, sempre pregevole in esposizione e in degustazione insieme al suo compagno di avventure e lieviti David Granger, la Patisserie des Reves di Conticini e Angelina, è uno di quei luoghi sussunto alla perfezione nella Grande Beffa… Gelée, mou e praline. Prezzi fuori di testa, le caramelle con frutta e verdura simpatiche e a brevissima conservazione, le mou non le ho mai capite e mai mi costringerò a farlo, le praline rigorose e con ganache fresche, quella con i capperi senza senso alcuno, con un Valrhona piatto, nocciole codarde e l’ennesima raffinata presa per i fondelli. Così decido per la casa madre. Entro, nessun dolce. Certo qui li fanno espressi. Voglio una torta… dovevo ordinarla… mi siedo, a metà strada tra un gioielleria e uno studio medico, ordino la sua famosissima millefoglie espressa con crema alla vaniglia e mi arriva la sua non famosissima millefoglie al pralinato, assolutamente a posto con una sfoglia calibrata e friabile e un pralinato dolce e alla lunga stucchevole, insieme ad una monoporzione limone e basilico, estrema ma assolutamente godibile. Nella selezione delle monoporzioni ce n’erano giusto un altro paio. Tutto qui.
E così, lasciando perdere gli errori e il fatto che se sei famoso per una millefoglie alla crema pasticcera, quella dovrebbe esserci sempre (cavolo, siamo in una pasticceria… una crema pasticcera è il minimo!), quattro o cinque monoporzioni sono il futuro della pasticceria francese? La vera gloria del gastrorepresso di trovare lo schiavo fuori dalla vasca che gli metta ai piedi le pantofole? Questa è la pasticceria espressa che sfida l’establishment? Divertimento per pochi. E non necessariamente eletti. La pasticceria parigina è un’altra cosa ma ognuno ha diritto all’espressione. Questo li rende manifestamente maestosi! Viva il loro dolce! Viva la Francia! E viva Jean Paul Hevin… la prossima volta non mi scappi…