Castel Goffredo. Un retaggio storico un po’ sciupato, una struttura gonzaghesca scesa a compromessi con quell’industria della calza, lustro e agio di un paese che nel medioevo ha disperso le sue origini. Eppure i portici reggono ancora l’imperizia della decomposizione, torri civiche e torrazzi sono un po’ sbiaditi dietro i tempi di proprietà private sfilacciate da una munificenza poco munifica, straordinari palazzi di campagna diroccati, che in altri lidi diventano la pietra angolare su cui costruire il fascino della decadenza, rimangono palazzi di campagna diroccati, e un neogotico sommario che, non riuscendo più ad attirare, deve accontentarsi, in troppi casi, dello sguardo abitudinario e autoctono di una piazza riservata e conservata. Eppure le campagne richiamano daccapo la propria origine, il passeggio è ancora uno sguardo stupito, il turismo non ha preso il sopravvento sull’ozio e le sagre di paese rappresentano la rappresentazione di un affresco. Castel Goffredo è incessantemente nelle parole di chi non vuole perdersi e di chi nel tempo ha provato a creare nuove consuetudini, per far riemergere un incanto soffuso in cui rimanere irretiti e nostalgici. Nessun classicismo può fare quello che stanno facendo Francesco Ferrari e Luciana Corresini che nell’erba di San Pietro han trovato il fondamento di una rinascita.
Il tempo e il luogo sono quelli dei frati domenicani in vocazione nelle corti dei Gonzaga. Dalla Toscana sono arrivate le prime coltivazioni domestiche di quell’erba amara che al naso ricordava una menta piperita e che per arrivare al palato aveva la necessità di essere trasformata, legata, bilanciata. A Firenze la farmacia di Santa Maria Novella l’ha sempre lavorata, tra quelle colline i benefici per la salute non sono passati sotto traccia.
Per la salute appunto, ma lo stupore di trovare ricettazioni al di fuori del benefico non ha prezzo e così la storia di Castel Goffredo ha abbandonato camici, monaci e chimici per prendere i corridoi e i tinelli, le cucine e le stufe a gas di “risidure” mantovane, dedite al senza tempo, in cui il ricordo è diventato una traduzione ostinata di una ricetta originaria che nell’oralità ha trovato il suo reale.
Il tortello amaro è un luogo letterario e ameno che nelle confidenze intime madre-figlia ha sfiorato solamente le Colonne d’Ercole del paese. Qualche comunità limitrofa, qualche frazione, qualche ristorante qua e là. Al di qua del pudore, ogni famiglia con il suo orto, un’erba che viene portata avanti per sdoppiamento delle radici, crescita e raccolta delle foglie tra aprile e giugno. Fino al limite di una dimenticanza gastronomica che stava riducendo tutto al silenzio.
Fino ad una ventina di anni fa, quando Luciana, un’infermiera che voleva sostituire il dolore con il piacere, insieme alla Pro Loco locale, decide che quel tortello doveva essere comunicato e magnificato attraverso una sagra dove somministrare e raccontare. Tra i tavoli e le pentole, l’incontro con Francesco Ferrari, un cuciniere scolastico per pranzi un tanto al chilo nella provincia di Verona, che, stufo dei tempi passati in macchina e colpito dalla pervicacia di Luciana, rientra in paese per aprire un pastificio, in modo che il tortello possa uscire fuori dalle case e diventare una forma di artigianato con produzione annua e gestione dei fornitori, della catena del freddo e delle quantità.
Ai castellani non è mai bastato il tortello amaro, il loro desiderio è sempre stato stuzzicato da quello amarissimo, dove l’erba di San Pietro fosse unica protagonista, con bietola e salvia semplici comprimarie. E così Francesco impara le ricette, crea rapporti commerciali con vivaisti per la coltivazione e mette in piedi, all’interno di una corte dietro quei calzifici che del Castel han creato una mercificazione indotta e intimante, il suo laboratorio, sviluppando una serie di ricette con l’erba amara danzanti intorno al tortello: dai bigoli alle tagliatelle, dagli gnocchi fino alle fuiade. Tutte più che centrate.
Come dicono da queste parti, l’erba amara è un vestito buono per tutte le stagioni. E così arrivano i poeti che la cantano, i birrai che la sostituiscono al luppolo, gli alchimisti che l’associano a menta e cannella per le pastiglie, gli erboristi che la sognano di notte, i grandi chef che l’abbinano con la creatività e i pasticcieri che la declinano nel dolce…
… e al di là della rappresentazione, dello sciabordio e dei viaggi intercontinentali per promuovere il tortello e trovare storie perdute, Luciana continua a raccontare e Francesco continua ad impastare dentro la sua bottega, rispettando i tempi e i modi di una ricetta che di mano in mano sovverte il mellifluo contemporaneo…
PASTAIO AGOSTINO
STRADA BERTUZZI 20
CASTEL GOFFREDO (MN)