Pecore Comisane, Zafferano e Piacentinu… Pietro Di Venti

PIACENTINU

Contrada Tresauro. Calascibetta. Un orizzonte senza requie. Tutt’intorno sono montagne, campi coltivati e strade dissestate. Il centro della Sicilia è un’immagine estiva talmente stagionale da non riuscire a riportarla altrove. L’autunno inoltrato è così diverso da rimanere nell’eccezione. Verde e temperature quasi primaverili, pecore al pascolo, fioriture fuori tempo e un’azienda agricola che spunta nel nulla. Un piccolo gregge di Comisane, raggruppato a prendere e a nascondere il sole, non lascia spazio all’errore. La provincia ennese è una terra profondamente radicata nel formaggio ma profondamente distaccata dal concetto di filiera. E, qui, in mezzo a dei caseifici e ad un presidio Slow Food, concentrati più sui nomi dei formaggi che sulla reale capacità di mantenere un integralismo, Pietro Di Venti ha deciso di dare vita al suo Piacentinu: allevamento ovino, coltivazione dello zafferano e trasformazione del latte.

Il “viddanu specializzato”, alias l’agronomo Raffaele Sardo, presidente del Consorzio di Tutela, racconta una storia di bellezza, isterismi e afrodisiaci. Esiste una leggenda. Ruggero I, conte di Altavilla, credendo nelle proprietà contro la depressione dello zafferano e vedendo la moglie in down da aridità fisica ed emotiva, chiese di aggiungere la spezia nei classici pecorini prodotti in zona. Ecco nascere il formaggio giallo-lussuria.

Chiaramente, ad onore di Storia, in queste zone, lo zafferano nel latte lo si addizionava dai tempi dei tempi. L’inganno aveva bisogno di una leggenda e la leggenda di un inganno. Così la contessa avrebbe corroborato più di un campagnolo ennese che ha “emulsionato” casualmente latte e zafferano e ci ha tirato fuori una definizione. Ma il Piacentinu, a rigor di illogicità, è una ganache (dove un maldestro garzone aveva gettato la panna dentro il cioccolato, creando una nuova consistenza…) tutta siciliana. Storia, leggenda e casualità.

Pietro Di Venti è un uomo con una faccia. Un siciliano come solo i siciliani sanno essere. Limpidi, ossequiosi e antichi. Una fatica trasparente, un’improbabile gestione della comunicazione, una richiesta di non dargli attenzione oltre la semplice conoscenza. Il prodotto deve parlare e, stavolta, ha parlato fin troppo, ha echeggiato, come un brano di Artaud riproposto dalle diplofonie di Demetrio Stratos.

Ricotta con lo zafferano: e qui potrebbe terminare la ricerca al concetto di coesione. Un prodotto soave, a cui è stato tolto il retrogusto della pecora. Qualcosa di estremamente trasformabile. Dall’antipasto al gelato, è un adattamento continuo. Gli assaggi sono lo sbarco in Sicilia, nel centro della Sicilia, in quella terra dove le mezze misure, le smancerie, le smorfie e gli amuse-bouche si sono trasformati, ed è così da sempre, in gioviali tavolate apparecchiate senza fine. La fame è il primo indice di degrado. Così a pancia piena, con quell’ “assaggio” di ricotta aromatica, calda e avvolgente, tutto diventa più semplice. Anche un continuo di conversazioni, di argomenti diversi e con domande reiterate.

L’interno del caseificio è lindo, i formaggi stagionano su legno nel chiuso di una cella frigorifero, i tini per la coagulazione del latte sono ancora in legno, lo zafferano viene disperso in acqua calda la sera prima e addizionato al latte prima della cagliata. Il pepe in grani, aggiunto in seguito, riporta un po’ di sicilianità a quell’estensione mittel-europea-medio-orientale data dallo zafferano. Lunga spurgatura, amarezza assente, colore giallo intenso, viene messo nelle fascedde, dei canestri in giunco, irripetibili (come mi sottolinea un arzillo novantenne in pellegrinaggio caseario…), che gli danno la forma, e poi rivoltato più volte per permettere leggere salature a secco. Stagionatura di minimo due mesi et voilà. Controllo perfetto del sale, zafferano contestuale, pepi in rottura e una straordinaria percezione di latte di pecora regalano un formaggio raro, dolce ma sobrio.

Qualcosa di unico, soprattutto se rapportato a tutti quei formaggi, giallo-taxi, che si propongono come pecorini allo zafferano, mistificando la loro vera essenza: sale al pecorino. Ecco, il formaggio di Pietro è l’immagine di una Sicilia diversa, impensabile fuori dalle coste, definita dai sapori decisi, dallo zucchero, dal pesce e dagli abbinamenti agro-dolci. Questo Piacentinu vale da solo qualunque viaggio.

I campi di zafferano sono totalmente arati, la raccolta novembrina, terminata da un mese, non ha lasciato nulla se non in infusione; le pecore Comisane in lattazione riposano sotto quel sole che non ghiaccia mai, nemmeno a settecento metri d’altezza a dicembre inoltrato; la gente va e viene. C’è chi propone celle frigo di un caseificio dismesso, c’è l’agronomo che imprime un senso d’ironia ad una storia di contadini, c’è la moglie di Pietro che diffonde gentilezza, ci sono i giovani locali appena munti, scambiabili tranquillamente coi giovani della bassa bresciana appena ballati, ci sono i belati e ci sono gli occhi di Pietro che ha deciso di prendere il suo lavoro e sintetizzarlo in tre processi: allevamento, coltivazione e trasformazione. Una ricotta, una ricotta allo zafferano, una ricotta salata, un Piacentinu e un pecorino. Espressione di una terra di piccole cose fatte perbene. D’altronde quell’orizzonte non può che far venire voglia di fare quello… eppure c’è ancora gente che fugge per analizzare i rischi delle multinazionali…

 

CASEARI DI VENTI

CONTRADA TRESAURO

CALASCIBETTA (EN)

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