Palermo e la sua indolenza. In un’estate meno torrida del solito, con i consueti deterrenti comunali in mezzo alle strade e i soliti parcheggiatori atteggiati a rincuoratori da ristorante e da dopo cena, i vicoli dietro il mercato del Capo, con le leggende dei Beati Paoli a marcare i ciottoli e i sotterranei, appaiono tetri nell’assenza di luci e nella presenza di voci. Le ombre e l’olezzo di cani randagi portano verso la Cattedrale, chiudendosi all’interno delle strade dei mestieri e dei mestieri di strada. A partire dai Candelai, continuando con i Cafisari, i Caldomai, i Calzonai, i Calzettieri, i Cappellieri, i Carrettieri, i Cerinai e i Chiavettieri. Palermo è il suo lavoro ma soprattutto è le sue strade. Qui c’è l’odore di stigghiole e di panelle, qui ci sono le grida della riffa, le barche posteggiate e i vimini dei seggiai; le corporazioni rimangono settarie, ognuno esegue il suo ruolo. Adesso, lì, tra via dei Candelai e Piazza di Monte di Pietà, ci sono locali radical chic, dissimulati da “sfasciati”, e venditori di mobili, le luci rimangono sempre basse e non si pagano più i pegni. In una viuzza poco nascosta e senza tavoli in mezzo alla strada, almeno per ora, appare la nuova creazione di Renata Ferruzza e di sua figlia Laura Malleo, il Perciasacchi.
Minimalismo e forno nascosto. Niente legna, molta contemporaneità. Una pizzeria un po’ bizantina nella sua struttura e nel suo laboratorio. Due sale molto geometriche e un retrobottega cervellotico. La cucina è lineare, senza sbavature, ancorché trovare in carta sempre il tonno un po m’annoi. Della pizza se ne occupa un giovane, Daniele Marchese, con poche conoscenze ma discreta abilità. Le due donne dirigono quello che rimane di un artigianato che diventa un’imprenditoria e torna ad essere una scelta di rottura.
Renata Ferruzza è una donna palermitana, con un passato, un agio e un salotto. Il pubblico borghese del ristorante è quello che può permettersi e quello che probabilmente desidera. La necessità è del tempo da dedicare al lievito madre (Ottavio Guccione ne è stato l’inconsapevole iniziatore…), al naturale e al biologico. La curata trasandatezza è vittima e carnefice di una conversazione sempre sul livello del mare. Con molta eleganza palermitana, quella che sa di fuliggine per la scelta consapevole di sporcarsi le mani, tornando a dare vita al centro storico, a mangiare il cibo di strada, rigenerando lieviti e palazzi dismessi. Il palermitano ha sei vani da definizione. Tutto il resto è noia e stress. E il Perciasacchi non può pretendere altro. La clientela è quella che arriva dopo perché prima arrivano solo ansiosi e arrivisti. La clientela è Palermo. Perciasacchi è un luogo da chiacchiere e curtigghiu. Dove ci si conosce un po’ tutti. Perché Palermo è un grande paese con periferie che Berlino Est era più empatica.
Francesco Di Gèsu, e solo in seconda battuta Filippo Drago, danno l’impronta a questo locale. Con i grani e con le farine. Perciasacchi, antico grano autoctono, parente prossimo del Kamut, è un khorasan turgido ricco di storia e di qualità nutritive. Il nome è avvolgente e primigenio. È già un racconto. Il pane ha degli sviluppi strani: ottimi sentori dalla semola semplice, metà a cilindri e metà a pietra, un filo troppo “siciliano” (compatto) nella tessitura, imprescindibilmente casalingo, poco aromatico nella tumminia in purezza. La pizza, impasto maturato a lungo a bassa temperatura (il lievito madre, di non ben precisata conservazione e di non ben mutuata maestria e motivazione, è scolastico nel suo sviluppo), con fioritura di buoni sentori ma difficilmente intuibile nelle acidità, poco lattiche e ancor meno acetiche, è un’imperfezione di vari grani, tra cui manitoba, perciasacchi, bidì e tumminia. Aromatica e perfettamente bilanciata nel blend, assolutamente migliorabile nel topping. Materie prime di medio/alto livello (dall’olio di Gibilmanna, ottimamente amaro, alla passata di pomodoro, fino a una mozzarella di bufala, sopravvalutata ma “il meglio che si possa trovare in Sicilia…”) , nessuna improvvisazione, un filo di pedissequità negli accoppiamenti e molta sicilianità nel piatto.
Renata e Laura hanno studiato e stanno cercando di applicare, forse un filo fuori dal giro e forse un filo improvvisate nel loro ruolo, ma sicuramente volenterose nell’approccio. Magari qualche patina in meno e un grammo di orecchio in più e tutto si potrebbe pacificare.. dalla loro, hanno tra le mani, a poco meno di un anno dall’apertura, la migliore pizza di Palermo, forse l’unica pizza di Palermo degna di questo nome. Nel mio disinteresse precipuo verso il prodotto, rimango a digiuno di personalità. Appaiono ma senza profondità. Un po’ per ingerenza, mia, un po’ per gusto del nascondimento. Renata mi affascina. Estetica ragionata e nobiltà di costumi, anche nel gesto di presentazione. Laura è decentrata. La pizza deve essere prima un gusto che un racconto. Il fascino ha bisogno di una bellezza. E in questo, Perciasacchi ha compiuto la metà del percorso. Un gran bel posto latente… e come inizio è molto più che una promessa…
PERCIASACCHI
VIA MONTE DI PIETA’
PALERMO