Quella Sicilia che non ritornerà più… Piero Cristofaro D’Amico

Palermo. Via Messina Marine. L’anticamera del degrado. Quell’ospedale a pochi passi, quell’indicazione per la zona industriale del Brancaccio che campeggia in alto, manco fossimo in autostrada, ambulanze a tutte le ore, botteghe di quartiere, coda perenne e macchine posteggiate laddove il caso ha lasciato spazio all’inverecondia. Un pontile ben articolato, che ricorda un passato plumbeo e una voluttà di andare al mare il giorno di festa: a metà strada tra la Versilia e Atlantic City. L’aria di antico non si respira sull’arenile, eccezion fatta per le otto di mattina, dove scogliera, odore di pesce, acqua cristallina e alghe vive tolgono la pattina alla bruttura della quotidianità e del cambio di corrente, fatto di bottiglie abbandonate al loro destino, pazzi di quartiere e ruggine rampante, immagine di un proibizionismo familiare e di domeniche, con costumi interi e pasta col forno, passate con il pudore e lontane dalla perversione di un sedere al silicone.

Qui in mezzo, si nasconde, destreggiandosi, la Pasticceria Da Josè. Un anonimo accento in mezzo alla solita idea di pasticceria palermitana. Cannoli, cassata, sfince, frutti di martorana, rapporti uno a cinque, zucchero a coprire e conservare e bellezza rarefatta in telefonate ad aziende produttrici di essenze, cialde, bucce, aromi e semilavorati. L’occhio non corrobora la possibilità, figurarsi la conoscenza.

La mia salvezza è rappresentata da Giò Martorana e da Antonio Cappadonia, durante un’inutile dimostrazione di pasticceria sicula, tra gli ampollosi vagheggiamenti che susseguono la presentazione di un libro. Antonio me lo presenta (ma scopro solo dopo che lui lo ha conosciuto il giorno stesso), dopo aver assaggiato la sua versione della cassata al forno, come un artigiano vero, “come noi”, mi dice.

Tendo a fidarmi, ci parlo cinque minuti e prometto.

Mantengo poco prima di Natale e poco dopo Santa Lucia, due tra le tradizioni più sollecite alla ricerca della familiarità del dolce e delle sue leggende. Vengo messo in guardia. Da buon siciliano, il lavoro mal si accoppia con la chiacchiera. Ma tant’è.

Questa è la patria di Piero D’Amico, quello che è, a tutti gli effetti, l’ultimo (forse il solo…) erede dei carretti, dei conventi monacali e delle neviere madonite. Qui il dolce ha l’apparenza, la sostanza e il racconto del barocchismo da insegna decorata.

Piero e la sua famiglia, aiutati da un paio di ragazzi e da un mestierante cioccolatiere le cui capacità sono inversamente proporzionali alla parola, fanno dell’autarchia un’egida di chiusura al mondo.

“Ho cercato di farti vedere la nostra parte peggiore, di farti assaggiare le cose meno interessanti, ma tu sei continuato a tornare…”, dice lui. “Manco fossi Lessie!”, penso io.

Questo è stato l’inizio del terzo giorno. Di Lazzaro nessuna traccia, ho continuato ad arrivarci sulle mie gambe senza sostegno alcuno. E nemmeno senza invito, o sì?

C’è qualcosa che Piero e suo figlio Giuseppe hanno tentato di salvaguardare dallo sciacallaggio d’informazioni del post-modernismo culturale. Io ero solo una propaggine e forse il velo del Tempio per un attimo si è squarciato. Il barocco dolciario, dove colori, sapori e soprattutto fragranze si sono frammischiati nel primo incedere oltre l’uscio, si è svelato.

La cassata al forno, con quella miscellanea “frolla-pan di Spagna” rotonda e quasi alienante rispetto al “dogma” e con quel gusto di ricotta impregnata di senso che, nell’attesa, ha perfezionato aromi e consistente, aveva una forma diversa, quasi straniante. Tondo imperfetto riposto, con perizia manovale, a copertura e a rispetto della semplicità storica del dolce: versione senza cannella e zucchero a velo, solo doratura e struttura panificatoria, retaggio del caseum (formaggio) latino e della casseruola (qas’at) araba dove veniva lavorata, prima di essere ricoperta da un impasto di pane e infornata, la tuma con zucchero di canna, agrumi e mandorla. Niente cioccolato, niente sovrastrutture. Piero racconta, fa assaggiare e fantasticare su quel legame così banale e così sincero con nulla di conosciuto. Niente monoporzioni, niente mousse e sperimentazioni limitate (ai corsi e alle fantasie del figlio Giuseppe…), solo quello che il padre gli ha tramandato oralmente e attraverso quei quaderni di ricette infarinati e burrosi…

… qui, il cannolo trova la sua origine. Senza essere assolutisti, forse l’unico a Palermo (una volta era Scimone, ora mi puzza di passato…) e uno dei pochissimi in Sicilia a partire dalla scorza. Vino, zucchero, farina, strutto e una spolverata di cacao (rispettosa della tradizione palermitana), tondo disteso, tubo dove avvolgerlo (metallo ma principalmente canna di fiume… unica origine del nome che il moderno “igienismo” ha messo da parte) e poi frittura nello strutto. Ricotta di pecora setacciata di alcuni produttori tra Baucina e Bolognetta. Niente canditura interna, ma solo zuccata esterna, e niente gocce di cioccolato. Qualcosa di magico e irripetibile, specialmente nella versione “ancora caldo”. Il carnevale (la festività a cui si associano e con cui nascono i cannoli) e la storia sono lontani, le pasticcerie palermitane ne hanno in eccedenza, la rappresentazione siciliofila ne assume le sembianze nella banalità di un libro di usi o nella domanda di un quizzaccio televisivo dall’altra parte dell’oceano… ma quel momento non ha nulla in comune con l’assaggio, la chiacchiera e la benedizione di un cannolo. Friabilità e croccantezza sono variabili tecniche che poco hanno da spartire con la meraviglia. Indescrivibile e qui sono costretto a fermarmi.

I frutti di Martorana, con oltre un mese di vita, sono quasi perfetti. Bilanciati tra zucchero e mandorla come accade quasi solo nelle case. Artisticamente ineccepibili. Un filo dolci nel trascorrere del tempo.

La tradizione della pasticceria si fonde con quella della gelateria. Quello per cui Piero è realmente conosciuto: il gelato e il suo legame con i nevaioli, i “sorbettisti di strada” e i mantecatori verticali. Cassata siciliana gelato (fatta, rigorosamente, col gusto crema), riso di chantilly, spongati, schiumoni, parfaits al caffè, bombe (la cui derivazione risale ai contenitori utilizzati per conservarle, che erano gli stessi delle granate durante la guerra…) e il giardinetto tricolore, creato in onore dell’arrivo di Garibaldi. Tutto fatto all’antica, come sottolinea Piero, con quella dolcezza e quel freddo tipici degli anni ’50. Succo e buccia di limone, ingredienti selezionati senza colpi di testa, fragoline solo in periodo e solo per amatori, angurie e cantalupi ripieni e tanta, troppa storia per spostarsi sul personaggio e sulla persona Piero che mi chiede riservatezza e analisi del contenuto piuttosto che di contenitore e narratore.

Per me la cosa più complessa in assoluto:

decentrare la potenza degli occhi, abbassare lo sguardo verso il dolce, vanificare le parole e continuare ad inorridire per quelle bellezze straordinarie, riposte male e vendute peggio ad un pubblico che, se ci fosse una legge imberbe contro l’anonimato delle radici, non meriterebbe nemmeno il corregionalismo. Ecco il mio percorso di andata e di ritorno, di andata e di ritorno.

Piero è un uomo coraggioso che ha dedicato la sua vita ad attualizzare il ricordo. Ce la farà anche con il “Trionfo della gola”, leggendario dolce monacale per pochissimi eletti (su tutti l’evanescente Gattopardo… in una delle scene simbolo del façon de penser, emblema di una regione…), continuando ad evitare il progressismo formale e a seguire i dettami-ordini di quel padre, putativo e naturale, che non c’è più e del quale, “derridianamente”, devono essere riportate a casa quelle poche tracce rimaste…

 

PASTICCERIA DA JOSE’

VIA MESSINA MARINE 267

PALERMO (PA)

30 cannoli siciliani perfetti e un tentativo di classifica definitiva

[…] Nicolò Scaglione sulle pagine del suo blog descrive Pietro Cristoforo D’Amico come uno degli ultimi testimoni della grandezza della Sicilia in fatto di dolci. E il cannolo ne è la fulgida testimonianza. Si parte dalla cialda (scorza) fatta con vino, zucchero, farina, strutto e una spolverata di cacao da avvolgere sulla canna di fiume (e ora sapete perché sappiamo da dove nasce il nome) e frittura nello strutto. E poi ricotta di pecora setacciata di alcuni produttori tra Baucina e Bolognetta. Un indirizzo poco noto e in una zona non bellissima che dovrete visitare perché è il cannolo migliore di tutta Palermo. […]

filippo scaringi

Sono Catanese e per me a Catania il miglior cannolo è da Savia, però spesso vado a Palermo e alcuni anni scorsi per un caso mi sono trovato in questa pasticceria e gelateria da Josè
in via Messina Marina 267 Palermo. Da allora in poi quando vado a Palermo chiamo un paio di ore prima e mi faccio preparare diversi cannoli che poi offro anche ad amici e Vi assicuro che sono i migliori che ho mangiato in vita mia: La scorza del cannolo è fatta da loro ed’è buonissima e abbastanza grande! Lo consiglio a tutti!!

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