Artogne. Qualche anno fa. Seguendo il consiglio di Vittorio Fusari, mi spingo oltre le sponde del lago d’Iseo e arrivo, al termine di una mulattiera stretta e paesaggistica, all’agriturismo Le Frise. Qui, un casaro mi ha aperto le possibilità di un mondo. Chef, stellati e botteghe del gusto avevano fatto il loro tempo. Gualberto Martini è stato uno dei mentori inconsapevoli del mio percorso. E fino ad ora, sempre con una deferenza refrattaria fatta di continui incontri e promesse, di viaggi senza padrone e di pranzi al sacco su tavolini in legno, ho procrastinato quello che era ineluttabile. Sono passati quasi duecento incontri, quasi duecento artigiani, milioni di parole, vaneggiamenti e contestualizzazioni. Grandi personaggi e rosei futuri, ma per Gualberto non era ancora giunto il tempo. Ora la mia forza è la mia paura di fare una frittata. Ci provo comunque…
Artogne è MonteCampione, almeno per il lascivo milanese, col maglioncino azzurro e il capello laccato, per lo snowboarder del weekend e per il berlusconiano assuefatto al mito del mattone rosso, del lago dei cigni e delle residenze con nomi silvestri. Artogne non è MonteCampione…
… visite precedenti. Cose che mi rimangono impresse: latte crudo, mani pulite, vescica delle capre, nitore da laboratorio nazista, separazione dei becchi dalle capre (per evitare sentori sgradevoli). Il resto è un innamoramento filo-nostalgico di un posto così lontano e così strutturato, in una valle che ha limitato la bellezza ai nomi dei formaggi, dimenticandosi, parzialmente, di un contesto dove farli nascere, con casere, cantine e caseifici (tra Angolo Terme e il passo di Crocedomini l’abbandono igienico è più che contenutistico…) dove fioriscono silter, casolet, formaggelle e fatulì, abbandonati senza pietà ad uno strenuo lavoro, compassato, esaurito negli anni, senza cultura, senza comunicazione e senza desiderio. La Valle Camonica, partendo dalla straordinarietà del suo territorio, è un soviet di tradizioni, dove l’esistente non ha più da essere se non nel prodotto tipico. Così Gualberto deve alzare il suo culo e andare a insegnare.
La voglia, anche per colpa di personaggi noti nella mantecazione e nell’affinamento caprino italico, non può prescindere dalla riconoscenza e dal riconoscimento…
Ad inizio anni ’80, ad eccezione di Alberto Beda con la sua “ospitalissima” Capreria Occitana (formaggi direttamente proporzionali all’umana presunzione…), uno dei pionieri del formaggio di capra transalpino-cremoso, di qualche capraio in giro per le valli e di qualche greve affumicatore di formaggi-rappresentanza-di-povertà, non c’era nessuno… anzi c’era Gualberto Martini. Da studente di agraria, prestato alla selva, con un’azienda agricola da rigenerare, a miglior produttore di formaggio caprino su suolo italiano, il passo è molto lungo.
Le capre rappresentano quasi sempre una scelta e quasi mai una tradizione, e Gualberto non fa eccezione. Le Frise sono due strutture che guardano il fondo valle (…che non riesce a portare su altro che fumi…), composte da stanze di stagionatura, stanze di affumicatura, stalle, caseificio, struttura ricettiva e agrituristica. Il punto di partenza è stato un allevatore che ha mollato un pezzo di terra con le sue quattro vacche. Il resto è stato un merito… La finezza del percorso, quell’estetica, tra il gotico e il contadino, è ben rappresentata da sua moglie Emma, un’insegnante di educazione artistica, prestata al focolare e all’accoglienza. Due caratteristiche: dolcezza e ospitalità. Nel post-femminismo da cake designer, da manager coi tailleur auto-allattanti e da rivoluzionarie della domenica con l’utero in testa, è veramente tanta roba.
La pace precede la biodiversità e la tempesta gustativa. Luigi, figlio di Gualberto e Emma, mi fa accedere nella stalla: una pezzata rossa da latte, due piemontesi da carne, conigli, polli, capretti, capre camosciate e bionde dell’Adamello, pecore, più in là i maiali (che consumano il siero del latte…) e poco tempo fa anche i cinghiali. Lui alleva e trasforma le carni. L’arte norcina l’ha imparata dagli anziani e la mette in pratica attraverso tecniche e affumicature. Parole come zuccheri, antiossidanti o nitrati, non sono nemmeno prese in considerazione. L’immagine che vuole l’Asl fa tranquillamente a meno dei suoi risultati: salami, prosciutti, speck, mortandele, soppresse. Solamente due anni fa, i suoi prodotti erano molto lontani dagli approdi d’oggidì. Speck di cinghiale, dove la cipolla della concia la fa da padrona, estremo, dolce, sapido, affumicatura blanda e sapori esaltati. Lodevole, così come la mortandela, affumicata, spessa, masticabile e rara su queste latitudini. Le tracce del padre, “quel passato che non è mai stato presente”, rimangono inconsce nel lavoro del figlio. Dal formaggio al salume, completando quella filiera commendevole fatta di razze, alimentazione e benessere, l’autarchia è composta da quattro facce (una ragazza albanese, con la coscienza di una famiglia e la soddisfazione della manualità, completa il quadro…) contornate da pietre a vista.
Partiamo da Slow Food, partiamo dal Fatulì: il primo assaggiato da Gualberto fu quello di un anziano della Val Saviore, che oggi non c’è più, affumicato solo con il ginepro (tradizione malsana che ancora qualche casaro porta oltre), con quella crosta inscurita dai segni lasciati dalle grate dove si appoggia il formaggio, con quel sapore greve ed acre che solo il ramo di ginepro può conferire. Gualberto, nella raffinatezza di un pensiero, ha aggiunto le bacche e qualche truciolo vegetale, togliendo bruciature e olezzi rancidi. Crosta dura color tennè, unica mungitura di latte di bionde dell’Adamello (razza meno produttiva della camosciata, ma con una raffinatezza inconsueta…), stagionatura fino ai sei mesi, la pasta è bianca, con piccole occhiature fermentative. Il gusto si gode in pieno nel rapporto tra la crosta e la pasta, con l’affimucatura a freddo blanda che rilascia sentori lattici molto decisi solo nel retrolfatto. Fatto da Gualberto, a differenza delle decine di altri assaggiati, ha il senso del Presidio… ma lì ci si spingerebbe ad un esistenzialismo fatto di nomenclatura e non ad un comunitario, quanto ipocrita, recupero della tipicità a tutti i costi…
Primo passo verso i suoi caprini. Gli acidi volatili (tipo il caprilico) rilasciano aromi che segnano profondamente il terroir del suo latte. La cagliata presamica viene utilizzata per alcuni prodotti a media/lunga stagionatura (un giorno, sentitosi sfidato da espertoni che sconsigliavano la stagionatura dei caci di capra, affinò alcune forme fino a 39 mesi… il risultato organolettico e la struttura della pasta rimangono nella sua soddisfazione…), formaggelle, cadolèt, robioline ecc… Caglio di capretto, o in sostituzione quello di vitello, paste compatte, bianco di zinco, con sapori che vanno dall’acidità iniziale alla dolcezza delle castagne secche finali, e paste mantecate e cremose con il passare del tempo.
I formaggi de Le Frise, nelle coagulazioni acide, quelle non richiamate dalla tradizione, raggiungono l’unicità, la straordinarietà e le notti insonni di un uomo: due mungiture, 1% di siero e piccola quantità di caglio. Dopo le ore dovute, messi negli stampi, alcuni deviano verso il fresco, altri verso lo stagionato. I caprini freschi hanno due-tre giorni di vita. In solitudine rappresentano acidità, lavoro dell’allevatore, capacità di non lasciare quegli odori ircini, così distanti dalla strada giusta e candore… affinati (semi di finocchio, curry, ginepro, erba cipollina, paprika ecc…) riguardano più la sua fantasia, la voglia di stupire, a volte di non trovare, a volta di raggiungere. I semi-stagionati vengono affinati e lasciati invecchiare anche un paio di mesi. Uno in particolare, messo sotto cenere, tagliato, presenta una pasta mantecata dalla doppia colorazione. L’unghia rimane giallognola, la pasta all’interno più bianca e compatta. Eccezionali note gustative e tattili. Tanti sapori e tante consistenze. Un’esperienza a sé stante. Anche per Gualberto, il formaggio per eccellenza.
L’ultimo capitolo è la crosta fiorita, il suo marchio di fabbrica. Pennicillium candidum nella fase iniziale, proteolisi della crosta e leggerissima mantecazione della pasta, un filo gessosa al contatto col palato e straordinaria nel suo sciogliersi col tempo. Le affinature sono alterne, i sapori sono fungini o con note di frutta secca, ma la consistenza è assolutamente unica, così come l’idea di deporli in pirottini da pasticceria.
Quello che resta è una ricotta ai profumi di nocciola, qualche crosta lavata, un erborinato dalla doppia vita, e l’umiltà di un uomo senza fregi, senza gonfaloni, con la capacità di cogliere quello che ancora di raro c’è nel non dover “partecipare” a tutti i costi. La gastronomia va su binari più rapidi, forse proditori, sicuramente più “francesi”. Lui fa quello che sa fare, decidendo se concedere fiducia o asprezza contadina… porsi è l’unica maniera richiesta dalla franchezza…
AGRITURISMO LE FRISE
LOCALITA’ RIVE DEI BALTI
ARTOGNE (BS)