Torino. Regio Parco. I portici sono una lezione imparata di storia sabauda che non riesce a guardare oltre la fronte corrucciata di chi ormai ha perso interesse per il cielo e per il tempo. Dalla lavorazione del tabacco alle case di ringhiera operaie fino alla suadenza da parcheggio comodo e parchetto canino, il quartiere si è evoluto ripulendosi dalla fuliggine e da quelle facciate in stile sanatorio che della quadratura han sempre reso un’immagine impossibile da rendere più vivida. Torino è sempre rimasta un cielo coperto e delle insegne al neon catalizzanti le direzioni delle strade. Colori vividi su una materia rimasta grigia, apocrifa, sconsacrata… taverne, pasticcerie, ristoranti cinesi e bar a mezz’aria, nel culto del giornale, nel riposo di mezz’ora, nell’operosità blanda di manovalanza fine a se stessa. Torino si è sempre allargata senza mai interessarsi dell’orizzonte da cui era vista e da cui era macchiata. Così ha mantenuto dei luoghi tenui dove rifugiarsi molto oltre l’estetica vintage del caffè e della boiserie.
La pasticceria Raspino è un luogo a cui il tempo è dovuto stare dietro per non perdere le radici di quel che restava. E così, Gino Rigobello, quel pasticciere che del contemporaneo ha fatto una tradizione, può continuare, a metà strada tra il bancone e la corte di ringhiera, a fare le cose comme il faut.
La sua è una storia di bottega, quasi di fucina, di sveglie senza orario, di lavoro dai migliori artigiani della città e di ricerca di una verità che collidesse con le dodici ore di fatica. Anni in bottega in una delle migliori pasticcerie della città, drasticamente raggrinzita, pic-nic dolciari insieme agli altri maestri e un filo sentimentale con Rosanna che ha deciso di ritardare qualche anno, tra sguardi e provocazioni. Lei, figlia di Lorenzo Raspino, aveva deciso e così il matrimonio è arrivato dopo un venerdì di libertà in cui innamorarsi. Così Gino ha portato la bottega a casa.
La successione è stata lenta e non si è ancora esaurita del tutto. Gino ha continuato a fare, bene, quello che aveva imparato in una pasticceria che, negli anni ’80, non è mai scesa a nessun compromesso (burro, lievito madre, glassature, confetture, cioccolato), e ha messo in produzione delle nuove manifatture che hanno preso la pasticceria trasformandola in un labirinto sperimentale dove le macchine ammantano gli angoli e si nascondono tra le ombre: tostatura del caffè e della nocciola e mulino a sfere per prodursi le sue paste.
Gino e Rosanna hanno il dono comodo dell’agio. Appena si varca quella soglia, e la retorica è veramente un polsino sporco da non considerare nemmeno, c’è una trasmissione empatica che necessita continue domande. C’è capacità, c’è quel modo affabile di condurre un’attività, prettamente femminile, che lascia tutto al proprio posto, senza sbavature, senza imposizioni ma soprattutto senza prevaricazioni. Sono l’apice di una pasticceria lieve, dove la tecnica è sempre un servizio e dove la tecnologia è sempre l’opacità della vetrina. Qui veramente la tradizione è sublimata in quanto tradizione. Contemporanea, con dei lasciti ma senza clave autoritarie sopra la propria testa, dove Lorenzo può ancora aggirarsi trovando se stesso, suo genero e un tempo che non c’è ancora stato.
I lievitati sono suoi, sono di Gino e vengono prestati a pasticcieri circondariali senza nessuna reticenza. Il panettone è burroso, molto cotto, con l’agrume al posto giusto, perfettamente sviluppato e molto pulito in bocca. Lo zucchero è corredo e fondazione. Perché qui lo sciroppo è ancora un apice e non ha subito i discrediti salutistici che hanno portato la pasticceria verso altre professionalità. Qui si prova ancora a fare il dolce senza segreti. Quelle coperture Valrhona chiuse sopra ganache territoriali, le spalmabili particolarmente tostate, perché qui la nocciola è gianduia e rimarrà gianduia senza compromissioni, gli straordinari marron glacé lasciati in vasca per una decina di giorni alla ricerca del croccante ma soprattutto di un sapore chiuso di foglie bagnate, le violette, le rivisitazioni dei biscotti del lagaccio, le torte decorative, le scelte tradizionali del cliente, le miscele di decine di caffè messi a tostare e ripresi per una perversione che non è mai stata nulla più di una soddisfazione espressa, le frolle rinforzate, il torrone morbido, i pandori sussurrati, la semplicità dove ancora la glassa rimane opaca in una “dis-sacralità” atona che non ha più voce se non in una città sepolta, rendono la pasticceria di Gino talmente cordiale da non aver bisogno di gesti eclatanti, di banchetti o di partecipazioni.
Gino e Rosanna rimarranno lì perché sono possessori di un luogo coeso con le loro parole. Senza vanità, senza necessità, senza bramosia ma soprattutto senza tradimento… e la nebbia ricoprirà quel quartiere senza avvertire… così, in mezzo ai clienti che sanno e agli stolti che continueranno a cercare contrasti contrastati e contrastanti…
PASTICCERIA RASPINO
CORSO REGIO PARCO 24
TORINO