Mompiano. Frazione della città di Brescia. A ridosso delle prime colline. Quando lo stadio e l’ospedale lasciano spazio agli alberi, le prime aziende agricole iniziano a fare capolino, con alberi di pesche a farla da padrone e le villette “medio-alta borghesia”, che fanno molto “bosco in città e orto come passatempo”, sono riuscite ad aggirare i permessi della pubblica amministrazione, cominciando una lenta ascesa al cielo.
Capannelli di persone, raggruppate sul ciglio della strada, affondano le mani dentro la vegetazione alla ricerca del sacro luppolo, eresia per risotti amari e aspri. I numeri civici proseguono solo sul lato sinistro, almeno fino a a quando non scorgo una barra che segnala la fine della strada lastricata e l’inizio dello sterrato. Guardo a destra, mi aspetto un caseificio, ma trovo un cancello, un paio di cani che abbaiano, una casetta in legno, estemporanea e provvidenziale, dei teloni che ricoprono delle specie di serre e una pioggia torrenziale che continua a cadere. Rimango perplesso ma entro. Vengo accolto da un giovane, il più classico dei figli, e vengo condotto all’interno dell’abitazione. Sono atteso. Padre, madre e fratello sono dentro e non mi scrutano, non mi fanno domande, non sono particolarmente sorpresi. Mi siedo. Cristina mi offre un nocino fatto da lei (ottimo) e iniziamo a chiacchierare.
Ecco, fino all’ultima stilla di dialogo e fino all’ultimo cenno di saluto, con la schiena rivolta all’interlocutore, non ho potuto fare altro che empatizzare e simpatizzare con una famiglia molto oltre qualunque tipo di insegnamento. E non è questione di fughe, ribellismo cresciuto, hispsterismo nostalgico rifugiatosi nella più classica delle campagne “younghiane” o biodinamismo, è questione di regole, educazione alla natura ed educazione alla comunicazione. I figli (dodici e diciott’anni) non scappano, non si chiudono le porte alle spalle, per entrare nel mondo di facebook ma rimangono lì. Tra l’incuriosito e l’interessato. Come se avessero anche loro l’obolo da portare alla comunicazione. Ed effettivamente di questo si tratta…
Umberto a Andrea. Due ragazzi di questo mondo, figli delle nuove generazioni, con una commistione di rapporti da capoluogo di provincia ma con il rispetto da mondo contadino. E la differenza si nota subito, dalla direzione degli occhi e dall’interesse che ci mettono all’interno della conversazione. Andrea, poi, è un manifesto surrealista all’assurdità dell’isolazionismo contemporaneo. Ti guarda e inizia lui il discorso, prende i lembi delle parole di suo padre e le porta oltre, senza che nessuno appulcri verbo. E lo fa con una nonchalance navigata…
Il dialogo resta vivo sui soliti ammonimenti e sulle solite controversie.
Cagliata lattica, qualcosa in presamica, una proteolisi ben evidenziabile sulle croste fiorite. Nessuna termizzazione, né tanto meno pastorizzazione. Lontano dai caprini francesi, quanto di più distante da un Rocamadour o da un Sainte Maure. Nessun viaggio d’oltralpe per imparare. Nulla di eretico. La cremosità e la granulosità non sono delle ricerche, ma delle scoperte, perchè la loro tradizione (che è quella dei vivaisti con la passione per i fiori, arrivati al formaggio, attraverso una partita di capre comprate per pulire il terreno dalle erbacce e immaginate in una notte senza vento come possibilità di futuro…) è altra. É la robiola, è il caprino fresco, sono le croste fiorite aromatizzate, è qualcosa di più immediato ma di molto più profondo nel gioco dell’acidità. Il fermento è autoprodotto e il controllo è qualcosa di superbo. Ph o non ph, fermentazione, controllo ammoniacale e rispetto dell’umidità. Tutto giocato nella più feroce delle instabilità.
Vent’anni passati all’ombra di carte, avvocati e amministrazioni comunali. Il niente per niente è il diktat dello loro quotidianità. Intorno a loro ci sono nuove villette a schiera, aziende agricole che crescono, un territorio sempre più urbanizzato e loro devono resistere senza la possibilità di crearsi una semplice stalla. Non per loro, ma per il benessere degli animali. Il gregge di capre camosciate, di una pulizia meticolosa, è costretto sotto una sorta di telone, vittima delle intemperie e dell’incertezza. “Ci sono state delle notti dove io e mia moglie, al primo cenno di grandine, ci alzavamo alle quattro e uscivamo per andare a coprire il fieno e a mettere in sicurezza quello che si poteva mettere”, così Alberto, che mi guarda, poi fissa il terreno, gli occhi perdono chiarezza, si confondono in un moto di insostenibilità e si esprimono attraverso quattro laconiche parole, “Io me lo merito”. Hanno una bottega di vendita che è la metà del ripostiglio, dove si nascondono bambini in disperata elusione della propria mamma, una scala a chiocciola, che scende nei meandri del terreno, che si confonde con la pietra contro cui sbatte e dove è difficile non prendere delle testate, una stanza di trasformazione, che è la stessa della smielatura (sì, perchè, oltre tutto ciò, producono miele e marmellate, tra cui una straordinaria, fatta coi limoni profumatissimi del Garda), che è la stessa della stagionatura. Tutta a norma, tutto piccolo, tutto ineccepibilmente morale.
Da lì escono le loro poesie, quelle che convincono Michele Valotti della Madia a metterli in carta, quelle che spingono Vittorio Fusari a svelare a Cristina i segreti della conserva di cipolle di Tropea e la ricetta del capretto ripieno con gamberi (Alberto si schermisce dietro il piacere provato, Andrea chiede se anche lui fosse presente alla delibazione…), quelle che riportano Gualtiero Marchesi alla sua infanzia, alle sue fatiche e alla sua terra, mostrando la devozione e l’umiltà di ricordarsi chi chiamare e quando chiamare… Tutti questi sono grimaldelli del racconto a cui si appiglia Alberto per non smettere di guardare avanti. Lui vuole fare la sua stalla (ci ha provato anche attraverso accorate lettere ai quotidiani), vuole creare un futuro per i suoi figli, vuole portare il suo gregge di camosciate (comprate un po’ da Gualberto Martini e un po’ da Chiara Onida, due fuoriclasse, e della comunicazione e della bontà, tra i chevrier italiani…) ad un centinaio e vuol far sì che le sue cinte senesi (eh sì perchè ci sono anche loro… Non soddisfatto del salame trovato in giro, della scarsa attenzione ad alimentazione e genealogia, si è creato un piccolo allevamento semibrado di suini “strisciati”, comprati in Toscana, che lentamente stanno iniziando a distruggergli tutto…) possano avere più spazio e maggiore libertà, la stessa che serve per la bellezza, la medesima che serve per la cultura. I Goring dei porcili sono lontani anni luce.
Dalla ricotta alla robiola di San Lucio (protettore dei casari), dal barbatass agli aromatizzati, dagli erborinati ai freschi, il loro lavoro sul latte è puro, e la purezza si rispecchi dapprima nei colori e nella lucentezza del bianco: sterminato, profondo, senza tinta, è un magma caotico a cui si sottrae l’asceta, rimanendo senza definizione.
A uno o a tre giorni, i formaggi acquisiscono o perdono in acidità e fragranze.
Le muffe appaiono e scompaiono, ma tutto sottostà alla loro idea di vita: una resistenza contadina che lucida di commozione gli occhi di Alberto e fortifica nella sicurezza la vanità di Cristina, vittima, fin troppo consapevole, delle signorie borghesi e provinciali, delle boutique griffate e delle pasticcerie laccate… dove arriva, si guarda in giro e viene etichettata… un po’ dall’invidia data dall’insicurezza, un po’ dall’ignoranza di chi non sa alternare una gonna a campana con uno stivale di fustagno…
…ed è lì che s’insinua il germe della felicità, nella differenza al di là di tutti…
AZIENDA AGRICOLA VAL PERSANE
VIA VALLE DI MOMPIANO, 90
BRESCIA (BS)